Il Troppo Stroppia?

Donare è una delle massime espressioni d’amore. Significa “dare con assoluta spontaneità, liberalità, disinteresse” , si utilizza anche per significare “far trapiantare un proprio organo ad un’altra persona”. C’è qualcosa di più prezioso e solenne?
E’ Natale e il dono rappresenta il gesto d’affetto che consacra l’unione in questo determinato giorno. Molti considerano il Natale come Nascita, alla quale si porta in dono qualcosa per dare il benvenuto alla nuova vita. Con il tempo il dono a Natale è diventato più consumistico che di valore effettivo/affettivo. Tant’è che si offre un dono spesso senza intenzione, senza trasporto, senza averlo scelto con cura, ma per il solo senso del dovere.

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La riflessione che voglio porre in alto però è questa: il troppo, stroppia? Dare giusto valore alle cose, apprezzare ciò che si ha, trattare con cura, gioire delle cose più semplici si confanno al riempimento di un baule già traboccante? Offrendo 10 regali, quanti se ne apprezzano sul serio? Quanti verranno abbandonati o dimenticati nell’arco di qualche giorno? Quanti verranno trattati con la giusta cura? Siamo nell’epoca smart, dove tutto è a portata di click e dove il low cost ha portato il vantaggio di essere accessibile ai più, ma lo svantaggio del non essere più merce rara e dunque preziosa. I genitori, spesso super impegnati con il lavoro, possono comprare ai figli quasi tutto. L’asticella del desiderio-soddisfazione dello stesso= felicità viene alzata sempre di più e nei primi 10-12 anni(ad essere ottimisti)del bambino, il genitore raggiunge il suo livello massimo, ma a quel punto il figlio lo avrà alzato ulteriormente e inizia il calvario di entrambi. Il genitore si lamenterà di avere un figlio che non è mai contento e il figlio penserà di aver perso l’amore del genitore perchè non soddisfa più i suoi desideri.
E la cosa triste è che entrambi avranno in un qualche modo ragione. Il figlio sarà davvero eternamente insoddisfatto, vorrà sempre di più, non apprezzerà ciò che possiede e si ritroverà ad essere infelice. Il genitore avendo misurato l’amore verso il figlio attraverso doni materiali, penserà di non essere in grado di amare. Quante volte capita ai genitori di sentirsi in colpa verso i figli? Di sentirsi responsabili della loro infelicità? Quante volte si pensa che senza quel determinato paio di scarpe ne faremo un reietto confinato in un ghetto? 

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In questa società che punta a monetizzare qualsiasi cosa, anche i sentimenti, dobbiamo resistere alla tentazione dell’equazione proposta dalle pubblicità “compralo e sarai felice”, perchè si tratta di mera illusione, di falsità. La felicità a cui aspirano i venditori è effimera, superficiale, volatile. E’ invece un sentire molto più alto e profondo quello a cui punta lo spirito umano, non può essere acquistato.
Domandiamoci dunque quando stiamo donando davvero e quando invece tentiamo di riempire un vuoto.Con  oggetti, ma anche emozioni.

Chiediamoci quando è TROPPO. Esso, come il suo contrario, è ALTAMENTE PERICOLOSO. Ci spinge nell’esatta posizione opposta a ciò che vorremmo ottenere. Puntiamo alla felicità, ma donando troppo cadremo nell’insoddisfazione.

Parlo di cose materiali, ma anche d’altro, per esempio le troppe attenzioni (si spinge l’altro a credere di essere l’unico per noi, ad essere dipendente da noi) o il troppo tempo (non si lascia spazio alla noia, al tempo per se stessi, prezioso per comprendersi e conoscersi). Quando si ha troppo, si tende a darlo per scontato, l’interesse cala e si chiede di più. Ma come si suol dire “non c’è mai limite al peggio”, non c’è limite nemmeno al meglio (nell’immaginario umano). Per questo, soprattutto i genitori, devono porsi dubbi e domande sul donare troppo. La nostra personale definizione di FELICITA’ e di BISOGNO sono la base da cui partire. Che cos’è un Bisogno? Che cos’è, per me, la felicità? Conosco i miei bisogni? Porre l’attenzione sugli attimi di felicità che viviamo, goderne appieno e comprendere da cosa nascono. Porre la stessa rigorosa attenzione sui nostri bisogni, comprendere da dove nascono, prendercene cura. Quando abbiamo riflettuto su questo, possiamo tentare di farlo per e con i nostri figli (se l’età ce lo consente), altrimenti sarebbe bene rimembrare il nostro io bambino e sentire i suoi bisogni e il suo concetto di felicità. Vi stupirete dell’effetto! I bambini desiderano molto meno di ciò che pensiamo. Sono davvero felici con quel poco che in realtà racchiude il tutto.

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Stiamo costruendo un mondo di insoddisfatti per il semplice fatto che ci hanno insegnato a misurare il nostro amore in oggetti, tempo, avventure strabilianti volte a far rimanere stupefatto il destinatario. Siamo davvero felici solo per eventi eccezionali? Siamo così tanto infelici della nostra quotidianità? E’ più importante dunque cercare qualcosa di stupefacente nella quotidianità o creare artificialmente dei motivi per essere felici? Vi è mai capitato di chiedere ad un bambino quando si è sentito davvero felice? Sono storie di “ordinaria banalità” APPARENTEMENTE. La straordinarietà sta proprio lì. Facciamoci contagiare.



M’ama,non m’ama: è questo il problema?

A tutti nella vita sarà capitato almeno una volta di pensare: perché non mi ama? (O non mi ha amato?) A questa domanda segue: cos’ho che non va? Cosa mi manca?
Il tempo, la rabbia ci portano a fare un prima passaggio: è lui/lei che non sa amare.
Conserviamo così quei pezzetti di autostima che ci sono rimasti, li mettiamo al sicuro e ,come lo specchio-riflesso che si faceva da bambini, giriamo sull’altro il problema. Perché si sa che da qualche parte il problema deve esserci. O sono io o è l’altro.
Passano i mesi e alle volte anche gli anni. Acquisiamo nuove consapevolezze e vediamo un passaggio delicato che prima non potevamo vedere: abbiamo/avevamo due concetti diversi di Amore.
Non sono io quello sbagliato e non lo è nemmeno l’altro. Siamo solo due persone diverse, con valori, bisogni e precetti d’amore che non corrispondono.


A questo punto entrano in campo altre domande. Mollare o tenere? Lasciare o lottare? Accettazione o compromesso? E cosa si cela dietro a tutto questo? Il sogno di una vita che vediamo sfumare, la paura della solitudine, la falsa certezza di non meritare amore, la scusa del “nessun rapporto è perfetto, cosa pretendo?”. Accontentarsi. Una parola dura, fredda, che finge accoglienza. Si dice spesso: devi accontentarti di ciò che hai altrimenti rischi di essere sempre infelice.
Meglio infelice vero che contento per finta.

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Senza cadere nell’utopia, l’Amore ha il meraviglioso compito di farci sentire a casa. Accolti, amati, alleati, protetti, compresi, sostenuti. Accontentarsi di qualcosa di meno è una forma di non rispetto per noi stessi, ma anche per l’altro. Cosa doniamo in cambio di un amore di cui dobbiamo accontentarci? Non permettiamo a noi e all’altro di essere amati davvero. E qui sì che si cela la vera infelicità. Vivere un amore tormentato toglie energie invece di donarne.
Perché sottostare a tutto questo? Per timore dell’altro forse, per le reazioni del mondo esterno alla coppia, per i figli, per i bei tempi passati insieme anche, per la paura di perdere il sogno.
Il sogno di una famiglia, inteso come coppia con figli, fa parte della cultura occidentale in modo profondamente radicato. Una donna che non fa figli viene vista spesso come una donna egoista, fredda, poco amorevole e che non fa la sua parte nel cerchio della vita. Un uomo senza una famiglia è quell’uomo che non è socialmente adeguato, non può mostrare il suo valore umano. La famiglia d’origine ci spinge al sogno di emulazione o distanziamento dall’idea di famiglia vissuta. Si ricerca l’idea di famiglia come nucleo saldo, porto sicuro in cui fare ritorno. Ebbene il sogno diventa obiettivo e scava dentro di noi il senso di inadeguatezza finché non lo raggiungiamo. Ma restare legati ad una persona per timore di non realizzare più quel sogno (peraltro indotto) ci fa perdere l’essenza di quel desiderio, la base su cui fondarlo: noi stessi. E, in fondo, che cos’è davvero una famiglia? E’ per forza una coppia con figli?

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Domandiamoci dunque se quel sogno è proprio nostro e se per realizzarlo vanno bene tutte le carte del mazzo o ci vuole quella speciale. Alle volte desideriamo qualcosa da così tanto tempo che non ci chiediamo più se la vogliamo ancora. Semplicemente siamo programmati per arrivare a quello e torturiamo noi stessi, accettiamo qualsiasi cosa pur di non abbandonarlo. Forse, il vero sogno, è al di là del muro, ma non lo vediamo.
Domandiamoci dunque se la sofferenza, l’agonia e la rabbia per essere stati lasciati non siano in realtà la nostra benedizione per poter vedere oltre. Domandiamoci se è l’amore che fa davvero soffrire o quello è il desiderio non corrisposto. Domandiamoci se i nostri bisogni possono essere messi in secondo piano. Riflettiamo sull’accantonare noi stessi per far spazio all’altro. Può essere che ci perdiamo per sempre. L’amore non è finzione. Prima o poi noi o l’altro ci smascheriamo e a quel punto cosa resta?
Siate fedeli a voi stessi. Siate onesti. Siate liberi. Amate e lasciatevi amare. Con amore.

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