Per alcuni di noi servirebbe una vacanza per riprendersi dalle vacanze vero? Rientrati alla routine post festività accendo una riflessione che ha a che fare con il lavoro di cura.
All’interno della famiglia c’è spesso lo sbilanciamento di un genitore, tra i due, che si occupa maggiormente del lavoro di cura. Per lavoro di cura si intende: occuparsi dei pasti (dal pensare a cosa mangiare, alla preparazione in cucina), dello zaino scolastico, dell’igiene dei piccoli (ma anche lavaggio, stoccaggio abbigliamento e simili) , dello spazio condiviso (riordino e organizzazione della casa) e altre praticità “visibili”. A questo si accoda una lunghissima serie di ‘lavori’ invisibili quali ricordare compleanni e scadenze, acquisto di regali, organizzazione degli impegni settimanali con incastri vari, gestione e prevenzione di crisi, visite mediche, viaggi, vita sociale, e tutto ciò che può avere a che fare con il benessere emotivo e relazionale come, ad esempio, organizzare un tempo per la coppia, un tempo esclusivo per i figli, gli affetti e molto molto altro, un lavoro cognitivo e di pensiero costante affinchè i bisogni di tutti siano soddisfatti.
Possiamo dire che ad oggi, tranne alcune eccezioni (i numeri sono così bassi nelle statistiche che possiamo ancora parlare di eccezioni alla regola) il lavoro di cura è maggiormente sbilanciato sulla donna/mamma. Sono stimate circa, in media, 5 ore delle donne rispetto alle 2 ore degli uomini, di tempo dedicato al lavoro quotidiano di cura e domestico nelle famiglie italiane.
Non ha molto senso crearne una questione di lotta di genere, e non vuole essere questo un’articolo a favore o contro un quale che sia movimento.
Il nostro tempo storico dimostra che l’eccesso di carico mentale nella donna è fondamentalmente un’abitudine culturale.
Noi donne abbiamo interiorizzato la responsabilità del benessere della famiglia al punto da avere non poche difficoltà nel delegare o anche solo liberarsi dall’idea che no, non siamo le uniche a dover badare che tutto funzioni, ma ci si aspetta che sia cosi. Ce lo aspettiamo da noi stesse innanzi tutto.
Insieme a questo senso di responsabilità viaggiano gli accessori come il senso di colpa ed il senso del dovere al quale non riusciamo a rinunciare soprattutto quando qualcosa non fila.
Si innesca in questo modo un circolo vizioso dovuto al fatto che, se pensa a tutto uno, l’altro non ha il modo ed il tempo di apprendere e mettere in campo le strategie per il lavoro di cura. Nel momento in cui c’è qualcun’altro che se ne occupa, io posso dire (e di fatto è realmente così) che non sono capace.
Sebbene qualche secolo fà la definizione netta dei ruoli poteva funzionare (alla mamma spettava il lavoro domestico e al papà quello di portare a casa il denaro necessario), ad oggi questa divisone di compiti non risulta più funzionale per diversi motivi.
La donna, per scelta o per necessità, lavora al pari dell’uomo. A fronte di 8 ore di lavoro giornaliere fuori casa, deve però anche sostenere (nella maggior parte dei casi ripeto tranne eccezioni), altre ore di lavoro domestico non retribuito. Sempre la donna se ne sente responsabile, anche quando non esplicitamente richiesto.
La donna ha ambizioni personali o professionali al pari dell’uomo (fortunatamente riconosciute e a beneficio di tutta la comunità) alle quali desidera dedicare tempo e passione. Chiaramente se a questo uniamo lo squilibrio nell’assunzione del lavoro di cura, la sua strada verso la realizzazione personale risulta molto più tortuosa e difficoltosa di quanto possa esserlo con una divisione equa.
L’uomo si stà liberando dal mero compito del ‘padre padrone’ ed inizia ad occupare un posto al fianco della donna come membro emotivamente presente e disponibile per i figli. I papà di oggi sono papà che coccolano, che si commuovono, che ascoltano ed educano in maniera presente ed empatica. Fortunatamente si stà abbandonando quel temibile “vedrai poi quando arriva tuo padre” e questa figura del maschile che compare e scompare di cui avere anche una sorta di timore. L’educazione affiancata offre il beneficio di creare un legame sano e sicuro con due figure che si, apportano delle differenze nello stile e nel carattere, ma che sono ugualmente disponibili e a disposizione della crescita dei figli. Anche l’uomo ha interiorizzato un’ idea di padre e di uomo che ha poco a che fare con l’organizzazione della famiglia perche questo è il retaggio culturale lasciatoci e che non sempre si rivela sano.
Il lavoro di cura ad oggi è una questione di genere perchè culturalmente è stato appreso e promulgato in questo modo e questo non lo rende necessariamente il ‘giusto’ modo o quello più funzionale.
In generale viene riconosciuta alle donne una maggiore capacità organizzativa, preventiva e di cura, ma mi chiedo se sia per effettiva indole o perchè non possono fare altrimenti, perchè è quello che la società si aspetta senza troppe individualità.
Da quello che la mia esperienza di vita ha potuto offrirmi mi sento di dire che il lavoro di cura può essere una dote, una capacità, non solo acquisita, introiettata, presa perchè ‘così è sempre stato’, ma anche ingenita, che può far parte della dote naturale di una persona indipendentemente dal genere di appartenenza. Solo che, agli uomini, di fatto, non viene molto permesso di esplorare questa dote o di farne esperienza senza giudizio. Fatta eccezione per i mestieri di cura quali il medico, l’infermiere, l’operatore socio sanitario e simili, un uomo che esprime una spiccata capacità di organizzazione a livello familiare e di essere il referente per la cura viene ancora visto come una mosca bianca, come colui che “aiuta mamma”(di solito con il seguito: “guarda che bravo”). Così come da una donna che invece queste capacità non le ha innate ce le si aspetta di default creando non poca fatica nel doverle apprendere e quindi applicare a sfavore di altre qualità ,solo perche donna.
In sintesi, e per concludere, sebbene sia vero che a livello innato ci sia una tendenza maggiore delle donne ad avere le doti e le capacità per il lavoro di cura questo non lo rende uno stato che vale per tutte e che fa stare bene tutte. Ancor più questo non lo rende un’ occasione per assumersi in toto (o delegare in toto) il carico mentale della gestione famigliare, dei figli e della coppia, accettando responsabilità e colpe non necessarie. “Ad ognuno il suo” è un detto che può essere utile se preso con il significato del “che ognuno eserciti le sue doti migliori per una divisione equa della quotidianità per costruire un ambiente sereno e stimolante il giusto per tutti i componenti”.