Quando due persone entrano nel vortice della domanda: mi separo o non mi separo? si parte con una serie infinita di altre domande che raddoppiano in caso di figli nati dalla relazione.
Purtroppo nessuno può rispondere per noi a quella prima domanda. Ma possiamo descrivere ciò che si attraversa, o per lo meno, ciò che la maggior parte di noi attraversa.
Si stende una lista di pro e contro, scritta o nella propria testa non fa molta differenza. Si individua da che parte pende la bilancia e poi si comincia a fare i bilancieri. Una volta da una parte e una volta dall’altra. A far questo gioco di peso sono i ricordi. Amici o nemici a seconda di ciò che il cuore vorrebbe.
Si analizza ogni singolo momento catartico vissuto dalla coppia e si vorrebbe tornare indietro nel tempo o spingersi nel futuro. Il momento presente, intrinseco di incertezza, rabbia, paura, tristezza, dubbio, è ciò che rifiutiamo più di tutto. Chi vivrà nel passato tenderà alla depressione, chi si protrarrà verso il futuro abbraccerà la paura. Così fomenteremo l’immobilità della tristezza o la lotta e la fuga della paura. Perderemo la lucidità, ci muoveremo a tastoni come quando ci bendavano da bambini per giocare a mosca cieca. Tutto ci apparirà diverso, privo di senso logico. Saremo disorientati e non sapremo più chi avremo davanti. La domanda per eccellenza arriva quando sale la rabbia e si inizia il gioco al massacro. A quel punto ci si chiede quando esattamente e come è stato possibile passare da “amarsi follemente” a diventare “due estranei”. Sembra che fino al giorno prima o al mese prima avremmo dato tutto per quella persona e improvvisamente, come destati da un sonno profondo, ci accorgessimo che in realtà non sappiamo nemmeno chi sia. Si alimenta così il pensiero dell’inganno, figlio della rabbia, che fomenta e distanzia, distrugge e palesa ciò che crediamo di non aver voluto vedere. E buttiamo via l’intero periodo passato con quella persona, ci lasciamo trascinare nell’oblio dal dubbio dell’abbaglio e del tradimento. Questo sembra aiutarci e spingerci verso una direzione. Se tutto è da buttare, se forse mi hai ingannato per tutta la vita passata insieme, chiudo tutto in un cassetto e smetto di soffrire.
In realtà, se buttiamo via tutto, non gettiamo solo l’altro, ma anche noi stessi. Cominciamo a pensare di essere dei creduloni, di sbagliare sempre tutto, di non saper valutare chi abbiamo di fronte, di non essere in grado di capire a chi dare fiducia e a chi no. L’autostima si abbassa, ci sentiamo ancora più persi di prima.
Il conflitto iniziale è molto alto. Si passa da carnefice a vittima in un gioco di ruoli estenuante. Non ci si comprende più, ci si sente lontani anni luce. Si arriva ad avere paura dell’altro, ad avere rabbia cieca, come solo verso un nemico avremmo immaginato.
Ed è vero che tutto passa, ma nel frattempo…. porca vacca!
La cosa che ci coglie impreparati poi è la sofferenza. Non si pensa, non si immagina, il grado di sofferenza che si arriva a provare. Si cerca il fondo del barile, ma sembra di non arrivarci mai.
C’è chi lotta per restare e chi per andare. Chi pensa all’altro come una scialuppa mentre nuota in mare aperto e chi lo vede come la tempesta che l’ha fatto naufragare. La lontananza degli intenti porta all’esasperazione del più piccolo conflitto. Si ricerca una ragione unica, una verità super partes che non esiste. Si resta incastrati nel tentativo di dimostrare chi dei due è nel giusto. La pretesa errata sta nel credere che la via dev’essere comune ad entrambi. Si ricerca un’approvazione dall’altro che in quel momento non può dare.
La recriminazione dei crimini e i danni collaterali connessi ad esso sono all’ordine del giorno e non si comprende più chi dei due abbia cominciato.
La necessità di riportare l’ordine e la giustizia , ci fa mettere in cattedra e puntare il dito. Tanti lo hanno puntato anche verso se stessi, ma nulla si ottiene se non altra sofferenza intesa come senso di colpa.
Come fare dunque per uscire da questo circolo distruttivo?
Cercando ognuno le proprie risposte per il qui ed ora. Pensando che l’altro troverà le sue e che ognuno dei due è quello che è. Non saremo noi a farlo cambiare. E non sarebbe nemmeno giusto. Alimenteremmo solo un altro circolo vizioso.
La domanda è : che cosa voglio io? Di che cosa ho bisogno io?
Bisogna prendersi del tempo, curarsi, rispondere con estrema sincerità.
Una volta avute le proprie risposte si può parlare con l’altro delle sue. Qualcuno si incontrerà nuovamente e a quel punto sceglierà insieme quale strada intraprendere. Qualcuno si allontanerà, ognuno per la propria strada, ma con una libertà nuova, una consapevolezza diversa che è quella per cui non si rispondeva ai propri bisogni e si stava remando verso l’infelicità.
Questo ci permetterà di non buttare via un’intera storia, di conservare il bello che c’è stato e di arrivare a pensare che non era più tempo per quel noi che ci ha comunque dato tanto.
Ci sono processi relazionali che richiedono anni per essere elaborati e riordinati. Ci vogliono terapie, viaggi solitari, distruzione totale alle volte e poi ricostruzione. Ci si perde e ci si sgretola finchè ad un certo punto bisogna mettere di nuovo insieme i propri cocci.
Ciò che uccide i rapporti sono le aspettative. Nel momento in cui nutro dei sentimenti per una persona, quella persona viene investita del mantello del supereroe. C’è chi venera l’altro e lo percepisce come un essere infallibile e chi viene venerato e si sente tale. Ad un certo punto l’adulatore verrà deluso nella sua aspettativa, ma non dirà nulla, o comunque penserà di poter dimenticare; l’adulato vivrà o il senso di colpa per aver deluso chi tanto ha dato, o si sentirà insostituibile agli occhi dell’adulatore. Ed ecco che inizia il gioco della distruzione. La verità viene manipolata dalla visione dell’uno e dell’altro fino ad accumulare una serie di realtà distorte che portano al collasso la relazione, apparentemente di punto in bianco. Nel momento in cui ci mettiamo un gradino più in alto o uno più in basso dell’altro ci stiamo già fregando con le nostre mani. È importante la conoscenza di se stessi perché ci spinge ad avere relazioni nella verità. È difficile dirsi e dire la verità. Essere se stessi anche rischiando di non piacere all’altro. Ed è difficile stare accanto ad una persona che vive nella verità. Se però entrambi si vivesse nella propria verità, nella condivisione della stessa, si donerebbe all’altro il sentimento più alto che possa essere vissuto: la libertà. Vivendo nella verità si libera se stessi e l’altro da quelli che sono giochi erotici che possono divertire, ma che portano alla distruzione.
Una trappola in cui si inciampa spesso è credere di non poter sopravvivere senza l’altro, di non avere più possibilità di felicità. Questo perchè si delega all’esterno ciò che in realtà può arrivare solo da noi. Ci si aggrappa dunque all’idea dell’amore e non solo intrappoliamo noi stessi, ma anche l’altro. E’ necessario dunque prendersi un tempo per guardarsi dentro, dirsi la verità, guardare le proprie paure e controllare che non abbiano preso il comando delle nostre scelte.
Siate felici. Comunque vada.
Manuela Griso