Progetto associativo o servizio educativo? Guida ad una scelta consapevole

I servizi educativi per l’infanzia, tra pubblico e privato, sono molti, ma non sempre riescono ad accogliere tutte le richieste che arrivano. Per questo  da anni sono nati diversi progetti ludici-pedagogici gestiti da associazioni ed enti del terzo settore, che hanno come Mission non solo la cura del bambino, ma il desiderio di creare una comunità educante, un coinvolgimento attivo della famiglia che ha sposato i valori umani  dell’associazione.
Essere associati in un progetto pedagogico non significa avere una tessera per poter entrare ed uscire usufruendo di servizi, come fosse un circolo privato. L’associazionismo nasce per scopi ben più alti. È l’ INSIEME di persone che credono negli stessi valori e che attraverso idee di sviluppo comuni (incontri, progetti ecc)  portano alla profusione nel mondo di questa loro visione.
Come in ogni gruppo ci sono i leader che fondano l’associazione e si donano allo scopo; ci sono persone che credono e investono fiducia in questo disegno e concorrono alla realizzazione, sempre più allargata, dell’idea madre.
Questo tipo di progetto non è dunque un mero scambio di richiesta/offerta.
È un vero e proprio connubio di intenti, di valori, che mira all’accrescimento e alla rivalutazione di concetti considerati quasi obsoleti, ma che sono la base per tornare ad un’umanità vera, di scambio quotidiano, di sostegno reciproco, nell’ottica più ampia della ricostruzione di un mondo gentile.

L’associazionismo non può essere portato avanti da chiunque. Non siamo tutti pronti a questo tipo di modello, seppur virtuoso.
Chi sente di non avere mai tempo, chi sceglie di inseguire il lavoro H24, chi pensa che l’educazione sia una cosa che compete alla “scuola”, chi sostiene che basti accompagnare i figli e andare a riprenderli, chi non crede che i bambini capiscano tutto, chi pensa di essere “fatto così” , chi non ha voglia di passare qualche giornata con gli altri, chi pensa che il prodotto sia più importante del processo,  lasci perdere l’associazionismo. Non è la vostra via.
Non sarebbe un percorso che vi darebbe soddisfazione, perché è un percorso impegnativo, volto alla costruzione di nuovi pilastri educativi, portato a distruggere le certezze per ricostruirne di nuove, promotore di valori che nella società attuale possono apparire anticonformisti: rispetto dell’altro, fiducia, sostegno reciproco, tutti per uno e uno per tutti, il riciclo creativo, l’educazione emozionale, la libertà di scelta.
Insomma, cose di una volta, che non fanno rima con consumismo, conformismo ed egocentrismo; con fretta, diffidenza e lontananza; con dovere, superficialità e ambiguità.
I contesti associativi NON sono dei servizi. Il contributo che viene offerto è per il sostegno delle spese e la realizzazione dei progetti che l’associazione promuove. La partecipazione dei soci non è solo necessaria per portare avanti le attività istituzionali, ma è fondamentale per consolidare e concretizzare l’idea di comunità cui si aspira e mostrare la via ai più giovani, affinché lo stare insieme per creare bellezza diventi uno stile di vita.
Entrare a fare parte di un’associazione significa questo. La scelta dunque di associarsi deve essere ben ponderata.

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Questa premessa per poter approfondire il tema della ricerca della  realtà più adatta a noi e al nostro sistema famigliare.

Come scegliere dunque il contesto ludico/educativo/formativo dei nostri bambini/ragazzi?
1)Informarsi sui valori e su ciò che l’ente promuove.

2) Leggere il progetto per comprendere se fa parte di noi, se risuona all’interno del nostro cuore, o se invece non è un impegno che ci sentiamo di assumere in questo periodo della nostra vita.

3) Guardare negli occhi chi ha fondato il progetto che stiamo valutando, sentire ciò che ci trasmette a pelle, ciò che arriva dentro di noi osservandolo.

4) Percepire l’ambiente intorno, se è un posto in cui noi vorremmo stare, se le attività e le proposte ci sembrano interessanti per il nostro bambino/a, partendo da una base di conoscenza delle tappe di sviluppo  e del significato di certe attività rispetto ad altre.
Vediamone alcune:
-La libertà di scelta. È facilmente intuibile se un ambiente è stato preparato a questo scopo oppure no. I materiali sono alla portata dei bambini? Ci sono molteplici attività  che il bambino può scegliere?
Perché vorremmo che nostro figlio/a avesse questa opportunità? La possibilità di scegliere cosa desideriamo fare (inteso come attività da svolgere) significa IMPARARE AD ASCOLTARSI. A scegliere il bene per noi stessi. Significa attuare anche un certo grado di RESPONSABILITÀ, perché scegliere significa anche questo.
-Le attività di vita pratica. Le attività di vita pratica sono coloro che fondano le basi per la CONCENTRAZIONE del bambino/a. L’opportunità di svolgerle apre le porte alle riflessioni che il bambino può compiere durante l’attività, nonché alla conquista di movimenti atti alla fase della scrittura ( che il bambino svolgerà in seguito) e alla memoria di lavoro data dalla sequenzialità dei movimenti per poter compiere il lavoro fino in fondo.
-Materiale auto-correttivo. Se l’ambiente contiene materiale auto-correttivo significa che il bambino avrà l’opportunità di correggersi da solo, di compiere il processo intuitivo che gli consentirà di trovare l’errore e ipotizzare soluzioni diverse, fino a trovare quella esatta.
-Spazio esterno. La possibilità di stare all’aperto dev’essere giornaliera, anche nella stagione fredda. Gli apprendimenti che  avvengono tramite il gioco libero, auto-organizzato, in natura, non possono avvenire in altri contesti e sono essi preziosa fonte di nutrimento motorio, scientifico,  sociale ed emozionale per il bambino. Oltre al fatto che stando molto fuori si ammalano meno perché il freddo Non fa ammalare, anzi, stimola il sistema immunitario, abbatte i batteri e la proliferazione dei virus.
-La passione degli adulti che accompagneranno i bambini durante la giornata e l’approccio pedagogico attuato. Nello sguardo di chi vi accoglierà e vi mostrerà la proposta dovrete leggere la passione per questo mestiere. È una scelta di vita, non si può pensare di farlo senza la scintilla negli occhi. Chiedete la storia del luogo, questo vi porterà a cogliere le fondamenta su cui si erge il tutto. Prestate attenzione all’approccio pedagogico e alle basi su cui si muove. Sentite se è coerente con la vostra visione, se è ciò che sentite più giusto per il vostro modello educativo, le vostre credenze, la vostra cultura.


Ci possono essere milioni di fattori che incidono sulla scelta di un luogo, di un progetto o di un servizio educativo. La cosa importante è cercare quello che ci rappresenta di più, perché i bambini hanno bisogno di COERENZA, di sentire che il genitore si fida di coloro a cui li affida. Per questo scegliete con cura, con calma, ponderate. Siate vigili e mettete in discussione con consapevolezza.
E se sceglierete un progetto associativo, partecipate in ogni modo possibile, è una grande opportunità per conoscere non solo la realtà che avete scelto con attenzione, ma anche per mostrare a  vostro figlio il mondo che vorreste: partecipativo, attivo, collaborativo, coeso, creativo e fiducioso.

C di Coerenza per sostenere l’adolescenza

Ahhhhh l’adolescenza! Quell’incredibile e sconcertante momento in cui stai parlando con tuo figlio/a e d’improvviso se ne va arrabbiato e offeso e non sai nemmeno il motivo. Quel periodo in cui tutto quello che dici è dannatamente sbagliato, quello dell’incomunicabilità. Di colpo, in casa, ti sembra di avere una persona che parla un’altra lingua, uno straniero venuto da lontano, che ha le sembianze del tuo caro ragazzo/a, ma con cui non riesci a parlare, non vi comprendete. Nonostante i tuoi sforzi di leggere le sfumature, i sorrisi, gli sguardi truci, non ce la fai, non li comprendi e alle volte ti fanno pure arrabbiare. Ed è lì che da una scintilla ti ritrovi in casa l’incendio che viaggia a velocità supersonica e tu non sei un pompiere. Non hai l’estintore o non lo sai usare. Cosa puoi fare?
Avvolgiamo per un momento il nastro e torniamo a quando tuo figlio/a aveva 1 anno circa. Inizia a camminare, a parlare, ad interagire in modo importante con l’ambiente che lo circonda e con voi (già da prima, ma i ricordi ora potrebbero risultarvi sfumati). Bene, ora pensate a tutte quelle situazioni in cui il vostro bambino desiderava fortemente qualcosa e voi glielo avete concesso, fino al giorno in cui quella richiesta vi sembrava superata o vi pareva che qualcosa non andasse più bene e di conseguenza avete detto NO, oppure non glielo avete concesso fin da subito. Molto bene. Ora che avete la situazione in mente, iniziate a rivedere il film. Cos’ha fatto vostro figlio di fronte a quel no?
Probabilmente ha pianto, magari ha sbattuto i piedi, urlato arrabbiato le emozioni che stava provando in quel momento; magari vi ha alzato le mani, o ha sbattuto degli oggetti a terra.
E voi come avete reagito?
Lo avete consolato? Avete tentato di spiegare? Avete compreso il suo comportamento e le sue emozioni o le avete sminuite perché vi sembravano esternazioni esagerate?
E dopo che cosa è successo? Avete continuato a gestire la frustrazione dettata dal no (sua e vostra) o avete svoltato sul SÍ?
È importante che voi ripensiate a quel momento e a tutti quelli  che si sono susseguiti nel tempo, negli anni a venire.
Se avete mantenuto il punto, spiegando le motivazioni che vi hanno portato a cambiare idea (l’età del bambino è una discriminante importante.  Per esempio lo avete sempre vestito voi, da un certo giorno in avanti, decidete che può iniziare a provare da solo. La frustrazione, il senso di abbandono e di ingiustizia, di incapacità può essere avvertito in modo importante dal bambino.), avete accolto le sue emozioni, siete rimasti e lo avete accompagnato al cambiamento, o se avete lasciato andare la battaglia e avete optato per il sì, per mille ragioni, stanchezza vostra, del bambino, il dubbio di aver sbagliato a dire di no, i ricordi della vostra infanzia intessuta di negazioni, o il pensiero che il vostro bambino stia soffrendo molto e, in fondo, perchè dirgli di no?
I bambini hanno bisogno di coerenza. Certamente l’età inficia molto e i cambiamenti sono non solo necessari, ma indispensabili. Scegliete bene però le vostre battaglie.

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Se ritenete fondamentali certi NO, non fateli diventare SÌ. PER NESSUNA RAGIONE. Il bambino piangerà, scalpiterà, vi accuserà, si arrabbierà e compirà vari gesti, ma rimanete fermi come un faro nel mare. Non lasciatevi travolgere dalle sue emozioni, altrimenti rischiate di andare a fondo con lui e questo non gioverà a nessuno dei due. La frustrazione è necessaria allo sviluppo del bambino per imparare a gestire le sue emozioni, per trovare strategie di soddisfazione diverse di quello che in quel momento avverte come un bisogno, di acquisire tecniche di mediazione, di gestire l’insoddisfazione, di comprendere che ci sono dei NO necessari, dati per il suo bene. Certo questo non dev’essere uno stato permanente, una condizione costante in cui il bambino è immerso, altrimenti si può generare bassa autostima e considerazione di sè, dei propri bisogni; può generare sentimenti di scarsa cura e un  attaccamento insicuro alle figure di riferimento.
Tutto deve essere dosato e con “scegliere le proprie battaglie” intendo proprio questo. Non possiamo far sì che il NO sia il  modus operandi predefinito con nostro figlio, ma nemmeno cadere nel lato opposto. Se il nostro NO diventa SÌ, il bambino penserà che può accadere con tutti i no, che non sono così definitivi e che nella vita ci possa sempre essere una scorciatoia, basta pestare i piedi più forte.

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Ora, se torniamo all’adolescente, e vediamo un ragazzo/a cresciuto con l’incoerenza, capiamo bene come in questa fase di totale affermazione della propria individualità, dove si fa spazio la personalità, scalpitando a più non posso per distinguersi dai genitori, sia naturale il tentativo di dissuadere e schivare ogni No. Cosa ci salva?
La coerenza che abbiamo avuto negli anni. Ogni NO rimasto tale. Questo ha permesso al bambino non solo di conoscere le regole della propria famiglia, i valori e le dinamiche relazionali, ma anche il senso di quel No. Al di là delle spiegazioni che possono essere arrivate nel tempo, se quel No è rimasto tale, vuol dire che era davvero importante, vuol dire che posso farci affidamento, diventa una SICUREZZA.
Il dire sempre sì ci assicura rapporti morbidi, sicuramente poche sfide e molti grazie. Può però generare anche insicurezza, il pensiero di non essere abbastanza importante per il genitore, perché “pur di non avermi tra i piedi, mi dice di sì”. L’affermazione positiva  non è sinonimo di amore. Alle volte significa “almeno così  non mi scocci” o “vai pure almeno non mi devo occupare di te”; generando spesso moti di rancore che paiono immotivati “ti ho detto di sì perché dovresti essere arrabbiato?”  Perché mi sento in mezzo al caos e tu non mi dai una direzione sicura, mi lasci in balia del mare perché tenere il timone è troppo faticoso. È più facile lasciare che tenere. È più facile il sì del no.
Ma non saranno i sì detti per non creare frustrazione che aiuteranno i rapporti nell’ adolescenza. Saranno i NO coerenti e i SÌ sentiti che permetteranno un dialogo aperto, la gestione adeguata della frustrazione, la saldatura del rapporto anziché la rottura.
Le mie figlie sanno che ci sono dei NO che sono imprescindibili. Non provano nemmeno a farli diventare sì. Perché sono NO dalla nascita ad oggi. E ora che sono adolescenti e pre-adolescenti, quelli sono i paletti fissi, quelli sicuri, che limitano i confini e la zona di movimento che sta nel mezzo. Non sono cambiati, sono ciò che ha illuminato la loro strada e le aiuta a mantenere la via.   È questo che ci consente di tenere il rapporto al sicuro nonostante le discussioni e le arrabbiature.

Negli anni sicuramente, come detto prima, ci sono dei cambiamenti necessari e indispensabili. Non possiamo pensare di dire ad un ragazzo di 15 anni di andare a dormire alle 21, ma per un bambino invece è un orario adeguato. Ci sono dei No che variano con le fasi di sviluppo e di vita del bambino, dei No detti in circostanze particolari, per salute magari, ma ci sono dei No che non possono cambiare mai. Riguardano i valori che una famiglia sostiene, le dinamiche relazionali tra i componenti, le mediazioni ottenute tra genitori su questioni etiche magari; i No detti per salvaguardare l’incolumità dei bambini e dei ragazzi, che sia fisica o psichica. C’è un mondo intero là fuori che cambia costantemente. Siamo in balia di cose talmente grandi che tutto può apparire effimero e dire di sì, almeno noi, ci pare come una sorta di ricompensa dovuta, come un ombrello che ripara dalla tristezza. Non siamo immuni.

Dobbiamo attraversarla la tristezza per saperla affrontare; la rabbia può essere distruttiva se non impariamo a canalizzarla; la frustrazione può sopraffarci se non impariamo che siamo in grado di fare a meno di quella cosa che tanto desideriamo ora. Diamo la possibilità ai nostri bambini di sperimentarsi, credendo che ce la possano fare, stando loro accanto nel momento di crisi acuta, comprendendo i loro sentimenti, legittimandoli, ma rimanendo fermi in quella che è stata la nostra scelta, fidandoci di noi stessi e del fatto che l’abbiamo compiuta in uno stato di lucidità, per il bene del bambino.

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I nostri figli potranno anche odiarci in alcuni momenti, crederci ingiusti, rigidi, incapaci di comprensione, ma alla lunga, se siamo rimasti con loro, se non li abbiamo lasciati soli, riconosceranno che le nostre scelte, anche quelle dolorose, erano per il loro bene.

La palestra emotiva è l’unico strumento che consentirà ai nostri bambini di diventare ragazzi e adulti consapevoli delle proprie emozioni e in grado di accettarle e gestirle. La nostra coerenza sarà il faro che li guiderà nelle loro scelte future e ciò che consentirà loro di comprenderci anche nel momento in cui saremo più distanti.

IL MANTELLO PERBENISTA DEL “PER IL BENE DEI FIGLI”

La separazione dei genitori è ormai un elemento comune a molti bambini. Purtroppo però sono ancora poche le volte in cui padre e madre riescono ad accordarsi e ad affrontare la situazione nel migliore dei modi per “il bene dei figli”.
Ma qual è il bene dei figli? Chi lo stabilisce?
Ogni essere umano è unico ed inimitabile, nella buona e nella cattiva sorte. Questo, è evidente, porta ognuno di noi ad avere dei bisogni diversi gli uni dagli altri. Ciò comporta un contrasto chiaro con i criteri che si reiterano da secoli in tema di separazioni.

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Alcuni miti da sfatare che si verificano ancora troppo spesso:
1.”Il bene dei bambini è stare con la mamma” per quale motivo? Chi stabilisce che un genitore, solo in quanto donna, sia più adatto a prendersi cura di un bambino in tutta la sua complessità? Non sono forse le inclinazioni naturali, la visione del mondo, l’impegno costante, le competenze emotive, a dover illuminare certe decisioni?
2.“Il bene dei bambini è la bi-genitorialità” ma davvero riteniamo che alcuni soggetti, senza sostegno alcuno, possano essere genitori consapevoli di ciò che stanno facendo? Persone violente, con dipendenze di ogni sorta, che non si prendono nemmeno cura di se stesse? E questo indipendentemente dal sesso. Uomo o donna non fa differenza. Ci sono madri che dichiarano apertamente di non aver voluto  i figli, ma poi, pur di apparire buone e socialmente adeguate, si giocano la carta del tribunale contro i padri. Ci sono padri che non conoscono nemmeno le allergie gravi dei figli, ma che si dichiarano padri presenti e attenti ai propri bambini. Non tutti sono in grado di fare i genitori. Non possiamo pensare che basti mettere al mondo una creatura per diventarlo. E obbligare qualcuno a farlo non è una scelta che comporta benefici effettivi, né per i genitori, né tantomeno per i figli.

Che il bene dei figli sia rimanere solo con il papà non l’ho mai sentito dire, forse perché gli uomini sono più umili sotto certi aspetti e non pensano di poter fare tutto loro. Da sempre sono considerati il genitore numero 2, quello non così indispensabile. Spesso le madri si ergono ad esseri superiori, ma indossando il mantello del martire ” lo faccio perché sono capace solo io, mannaggia a te che sei un incapace” o “se non lo faccio io chi lo fa?” Di fatto si mettono da sole nella condizione del monogenitore nonostante siano ancora in coppia. Avvenuta la separazione mantengono il ruolo e l’ex ha due vie: o tentare di costruire un rapporto paritario rispetto ai figli, o mantenere anche lui il suo ruolo da padre assente . Dove stia la verità è spesso molto difficile capirlo,perché le versioni discostano sotto molti aspetti.

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Le storie di oggi sono piene di donne vittime dei propri ex mariti o compagni e tanti sono stati i segnali precedentemente, ma nessuno se n’é voluto occupare. È aberrante e inaccettabile.
Mi domando allo stesso tempo quanti uomini ci siano, vittime emotive di donne che si credono il creatore. Che si arrogano il diritto di scegliere a discapito di un rapporto padre/figli, coprendolo anche con il mantello del “bene per i figli”.
L’unico tassello univoco a tutti è che il bene per i figli sarebbe poter avere dei genitori che li amino, indipendentemente dai rapporti tra loro; che non si facciano la guerra pensando che eliminare l’altro (ritenuto inadeguato) sia “il bene dei figli”.
La manipolazione della realtà a proprio vantaggio, la cecità di fronte a palesi reazioni dei figli che indicano che si sta andando nella direzione sbagliata, magari accompagnati dalla nuova compagna/o, è un modello usuale ai più, durante e dopo la separazione. Non si vedono più, davvero, i propri figli, ma si vede ciò che si vuole vedere. Si pensa che se la situazione fa vivere bene noi, sia certamente così anche per i figli. E mentre loro si arrabattano con strategie di sopravvivenza più o meno evidenti, noi li vogliamo vedere felici, per cui questa sarà la storia che racconteremo a noi stessi e agli altri.

L’altro genitore viene dipinto come assente, immaturo e inadeguato ( padre); poco di buono, pazza ed esagerata (madre). Il risultato sta nel mezzo, dove troviamo figli che non sanno schierarsi, che se lo fanno si sentono colpevoli e che spesso, molto spesso, non vengono creduti. Se uno dei due genitori dice all’altro: “il bambino mi ha detto che… ” si viene subito accusati di essere bugiardi, se non addirittura di alienazione. Ci si ritrova così a dover abbozzare per quieto vivere, a sentirsi dei genitori inadeguati perché non possiamo sostenere il nostro bambino, o a fare la guerra pur di ottenere ciò che riteniamo giusto per i nostri figli.


Come uscire dunque da questo tunnel? Come comprendere quando stiamo realmente vedendo la realtà e quando invece indossiamo lo sguardo del nostro benessere come filtro?
1) Tuo figlio ti dice che dall’altro genitore fa qualcosa che non gli piace fare. Invece di sentirti in colpa o prendere di petto la situazione, senza sapere dove ti porterà, lavora con tuo figlio affinché piano piano possa prendere coraggio e dire al genitore in questione di che cosa avrebbe bisogno. Come fare? Rimandando al bambino che con l’altro genitore può parlare, che sarà pronto ad ascoltarlo, che la sua opinione è importante; oppure provare le strategie del problem solving cercando delle possibili alternative da mettere in atto. Fate una bella lista, con tutte le idee che vi vengono in mente (genitore e figlio), poi rileggetela e spuntate le idee che non sono attuabili. Arriverete a trovare delle soluzioni insieme, mostrando al bambino una strategia efficace di risoluzione dei conflitti, che interiorizzerà nel tempo e potrà far parte del suo bagaglio comunicativo.
2) Vostro figlio vorrebbe stare di più con voi che con l’altro genitore.
Analizzate con calma la situazione. Domandate a vostro figlio che cosa fate (o siete) che lo rende più felice quando siete insieme. Senza accusare l’altro genitore o sminuire le sensazioni del bambino, parlate insieme dei suoi bisogni. Ascoltateli. Provate a rimandare l’emozione che secondo voi provano,  per verificare se avete ben compreso. A questo punto domandatevi quale emozione scaturisce in voi tutto questo. Riguardate i bisogni del bambino e i vostri. Se riuscite, con empatia, provate a spiegare al bambino, perché in quel momento non è possibile soddisfare quel bisogno. Se sapete già che potrà essere soddisfatto, date loro una scadenza. Se vi sentite impotenti, abbracciatelo. Capirà.
3) Temete che l’altro genitore possa mettervi contro i figli.
I figli amano i loro genitori. Indipendentemente da come questi si comportino con loro. Che siano affettuosi e attenti o violenti e assenti, loro li amano comunque. E cercheranno sempre di renderli felici. Anche quando sembra che facciano di tutto per ferirli , in realtà ricoprono il ruolo che gli è stato assegnato. Vogliono dare ragione al genitore, pensando che così sia felice. I bambini vogliono il bene dei loro genitori, alle volte più di quanto i genitori vogliano il bene dei figli.
Quando un genitore parla male dell’altro con i figli, potrebbe ottenere un iniziale rapporto conflittuale tra i due, ma esso si risolverà in tempi brevi se quello che è stato riferito non è la verità. I bambini sono piccoli, non stupidi. Sentono il bene e ne sono affamati.
Si può cadere però anche nel lato opposto. Ovvero… Il genitore dice la verità e il bambino lo prende per bugiardo e non gli crede. Anche in questo caso, il bambino mostra l’amore verso il genitore che secondo lui è più fragile. Per cui si può ottenere come risvolto un maggior attaccamento.
Per evitare tutto questo, è necessario,seppur complesso alle volte, che ogni genitore pensi al proprio rapporto con il figlio, senza intromettersi nelle dinamiche con l’altro. Soltanto così il bambino sarà libero di osservare con i propri occhi, di farsi una sua opinione e di manifestare i suoi stati d’animo senza influenza alcuna. Ci si sente impotenti nel vedere la manipolazione e nel comprendere che è meglio supportare a lato ed eventualmente raccogliere i cocci, senza intervenire a gamba tesa. L’istinto ci porterebbe dall’altra parte, ma il rapporto con l’ex può influenzare la nostra visione delle cose.
4) Domandatevi se foste nei panni di vostro figlio come vi sentireste.
Chiedetevi che cosa sta provando, se corrisponde a come vi sentireste voi. Analizzate i conflitti che pensate stia vivendo e create con lui uno spazio di ascolto. Soltanto voi due. Apritevi a lui. Dedicategli del tempo vero. Dove la vostra attenzione non sia interrotta dal suono del cellulare, dalla televisione o dalle parole di un altro adulto.
5) Non rinnegate il passato.
Avete vissuto con il padre o la madre dei vostri figli per un certo tempo di vita. Avete condiviso gioie e dolori. Vi siete amati e magari anche odiati. Ma da quel rapporto sono nati i vostri figli, che meritano di sapere che i loro genitori si sono amati, che il rapporto è mutato, ma il rispetto resterà sempre. Hanno bisogno di saper e che in qualche modo, una parte di amore resterà per sempre. Altrimenti non crederanno più ai vostri “ti voglio bene”. Penseranno che sarà così finché non faranno qualcosa che vi farà arrabbiare davvero. E da lì, allora, odierete anche loro.
Dobbiamo dare loro l’assoluta certezza che il nostro amore per loro non passerà mai. Dobbiamo essere coerenti. Se passiamo dall’amore all’odio con facilità in rapporti importanti, è come se confermassimo loro che prima o poi li abbandoneremo, esattamente come abbiamo fatto nella relazione con l’altro genitore.

Non ci sono formule magiche per una “separazione serena”. I due termini insieme già suonano come una dicotomia.
Ma lo scopo di tutto questo è ricordarsi che non esiste “IL bene dei figli”; esiste l’idea che ognuno di noi ha rispetto a questo e l’unica legge che davvero dovremmo tenere a mente è quella di continuare a rispettarsi nonostante tutto e ad osservare i nostri figli, senza filtri attivi.
Questa è l’unica base per il vero bene dei figli. Da lì si può partire a costruire tutta la parte gestionale e organizzativa, tenendo presente le esigenze e i bisogni dei bambini, partendo dai loro sguardi. Ricordandosi che fare il genitore è un onore, non un peso. Per cui non siamo eroi se abbiamo un nucleo monogenitoriale o se stiamo con i nostri figli la maggior parte del tempo perché l’altro genitore è impossibilitato da eventi o da volontà. Noi siamo quelli fortunati. Quelli che possono godere di momenti importanti che non torneranno più. Non sentiamoci eroi e nemmeno martiri, vittime di uomini o donne latitanti che non ricoprono il loro ruolo. Sentiamoci grati per poter godere ogni giorno della presenza dei nostri figli, del loro amore e dei loro preziosi insegnamenti.

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Cari mamma e papà,
ho due anni e non capisco
come mai devo stare a volte lontano dal papà e a volte dalla mamma. Voi me lo avete spiegato, ma io non ho capito bene. Vorrei potermi addormentare ogni sera con la favola del papà e il bacio della mamma, vorrei potermi arrabbiare con uno e farmi consolare dall’altro per poi tornare ad abbracciarci tutti insieme.
Cari mamma e papà, ho 4 anni e sono arrabbiato. Vorrei non dovermi spostare da una casa all’altra in continuazione e poter dormire con voi nel lettone come facevamo prima. Vorrei non svegliarmi nel cuore della notte e chiamare papà senza che mi possa rispondere e vorrei poter abbracciare la mamma quando esco da scuola ogni giorno. Non voglio dover andare via dal papà quando stiamo giocando e non voglio lasciare la mamma quando sono stanco.
Non mi piace vivere così.
Cari mamma e papà ho 7 anni. Nella mia classe ci sono tanti bambini che hanno la mamma e il papà in due case diverse. Non mi sento speciale, mi sento solo triste e alle volte mi sento un peso. Tu, mamma, ti arrabbi se sto con te nel giorno in cui dovrei andare da papà, ma papà non può. E alle volte invece sento te, papà, che vorresti andare a sciare ma poi dici: ma devo stare con mio figlio. Vorrei non dover scegliere la domenica se stare dal papà o dalla mamma. Vorrei che foste voi a decidere perché per me è troppo difficile scegliere. Io voglio bene ad entrambi.
Cari mamma e papà ho 14 anni. Vi siete separati da tanto ma ancora vi sento parlare male l’uno dell’altra. A volte papà mi dice che sono come te, mamma, e ho capito che lo dice con un tono dispregiativo. Altre volte mamma mi dice che tu sei un egoista perché non rispetti gli impegni presi. Ma io lo so, papà, che tu se non vieni è perché hai un motivo valido, lo so che mi vuoi bene e che per te sono importante. Quando siamo insieme parliamo, stiamo insieme, ti dedichi a me.
Io lo so, mamma, che tu sei una donna forte e in gamba, che alle volte quando non mi vedi, quando sei incentrata su di te, non lo fai perché non mi vuoi bene, lo fai perché pensi di darmi un buon esempio prendendoti cura di te. Ed è vero mamma, in parte è così. Quando papà mi dice che sono come te, io non la prendo male, perché per me è un complimento.
Non sono più una bambina, ma mi domando come possano due persone amarsi tanto e poi farsi così del male per tanto tempo? Perché non la smettete? Farete così anche con me se non farò quello che volete voi?
Cari mamma e papà, ho 20 anni. Vi ringrazio per essere stati la mia mamma e il mio papà. Per aver dato ciò che siete riusciti a dare, perchè sono fiera di me stessa e questo è anche merito vostro. Ora sono in terapia per comprendere quali colpe ho avuto nella vostra storia. Spesso mi sono sentita usata per ferire l’altro, mi sono sentita di peso nelle vostre nuove vite. Devo costruirmi un modello d’amore che sia solo mio. Ho tanto lavoro da fare, tante domande a cui dare risposta, ma non sono più arrabbiata con voi. So che mi amate a modo vostro e che ora l’indifferenza tra voi ha concesso la pace. Gioirò il giorno in cui vi riconoscerete  nuovamente e saprete vedere la luce che c’è in ognuno di voi, la stessa luce che incontrandosi mi ha permesso di venire al mondo. Vi amo nonostante tutto e vi sono grata. 

N.B. Questo articolo si riferisce a casi di separazione che escludono violenze domestiche, psicologiche e fisiche. Esclude situazioni limite, siano esse dettate da forte conflittualità o da dipendenze di vario genere, dove la sola legge può intervenire per la salvaguardia della prole e degli stessi genitori.

DOP: Disturbo Oppositivo Provocatorio, Denominazione di Origine Protetta

“Con il termine “Disturbi del comportamento” ci riferiamo alla condizione di bambini che mostrano comportamenti aggressivi, difficoltà a regolare le proprie emozioni e scarso rispetto per le regole date dagli insegnanti e dai genitori. Queste caratteristiche devono essere presenti quasi tutti i giorni per almeno 6 mesi e solitamente si presentano sia nell’ambito familiare, sia nell’ambito scolastico”
“Il Disturbo oppositivo Provocatorio si configura come un pattern di umore irritabile e collerico con comportamenti provocatori, polemici, vendicativi e sfidanti”

Dal libro Dop disturbo oppositivo provocatorio cosa fare (e non), guida rapida per insegnanti


Sono sempre di più i bambini che sviluppano disturbi del comportamento fin dai primi anni di vita e sempre più importanti gli interventi che vengono effettuati su e con questi bambini per far sì che possano integrarsi nella società in una modalità di relazione serena ed efficace.
Le domande da porsi sono tante se si osservano i dati. Eccone alcune:
-Come mai questi bambini adottano tali comportamenti?
-La diagnosi è un valore aggiunto per il sostegno del bambino o un’etichetta che permette la rassegnazione senza senso di colpa?
-Cosa si può fare di davvero efficace per sostenere i bambini, le famiglie e gli insegnanti?

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I dubbi e le difficoltà sono davvero molteplici, le strategie possono essere diverse in base all’osservazione del comportamento del bambino, del contesto familiare, dell’attivazione del disturbo e delle modalità di espressione, ma proviamo a vedere quali sono gli aspetti comuni nel disturbo oppositivo provocatorio.


Tipicamente ci sono fasi di sviluppo che mostrano l’opposizione come caratteristica di base e queste hanno la funzione di aiutare il bambino nella costruzione della propria identità. I bambini che permangono, incastrati, in queste fasi di sviluppo sono bambini sofferenti.

Bambini che portano un peso più grande di loro, di cui non comprendono l’entità e che non gli permette di regolare l’emotività. Tutto è amplificato: il peso emotivo, le reazioni del bambino e la visione delle reazioni altrui.
Questa distorsione porta il bambino all’interno di un loop da cui non riesce ad uscire, anche perché spesso si manifesta in età talmente precoce, da non aver ancora sviluppato del tutto la corteccia  prefrontale , colei che ci permette di revisionare la realtà, di regolare le reazioni emotive e di comprendere gli aspetti sociali.  Spetta all’adulto dunque comprendere, analizzare e trovare una modalità di relazione e di gestione del bambino con DOP.

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La diagnosi dovrebbe essere un indizio per l’insegnante, che lo spinge in una direzione piuttosto che nell’altra, rispetto al comportamento da tenere a propria volta con il bambino; uno strumento utile per la comprensione di alcuni atteggiamenti del bambino. Molto spesso, invece, viene interpretata come un’etichetta sull’intera identità del bambino, che come tale va a bloccare ogni tentativo di “recupero”, di relazione efficace, determinando una sorta di rassegnazione che elude però il senso di colpa, perché “non sono io che ho fallito, è il bambino che è sbagliato”.
Se si parte dal presupposto che un bambino con Disturbi comportamentali sia irrecuperabile, non ci poniamo nella direzione giusta per poter anche solo fare un passo su una strada non ancora vagliata. Rimaniamo incastrati davanti al nostro muro, senza vedere che accanto c’è una porta. Bisogna trovare la chiave, certo, ma la porta c’è.
Se partiamo invece dalla base e cioè dal motivo per cui questi bambini si comportano così, credendo fortemente che nessun bambino NASCE così, nessun bambino nasce “cattivo”, nessun bambino È il comportamento che sta attuando, iniziamo con il piede giusto.
Le motivazioni possono essere molteplici e svariate, ma la piattaforma su cui sono costruite, è la medesima: la sofferenza.
Il bambino con DOP pensa di essere sbagliato, di vivere in mezzo a persone che non lo apprezzano; ha bisogno di essere visto, riconosciuto, apprezzato.  È necessario fargli notare i comportamenti positivi che attua, in modo da rinforzare l’autostima e la risposta “adeguata” in una determinata situazione.


La regolazione dell’emotività è l’aspetto più complesso nei bambini con DOP, perché l’onda emotiva li travolge in modo così totalizzante, da non mostrargli altro.

Circondato dalla sua emozione, il bambino non vede l’altro e non è in grado di percepirne la reazione emotiva. È necessario mettere a sua disposizione degli strumenti che gli consentano di apprendere una modalità di gestione dell’emozione soprattutto nella fase acuta, in modo da non inficiare le relazioni e non accrescere la sua sensazione di inadeguatezza.
Possono esserci una moltitudine di stratagemmi da attuare, sulla base dell’osservazione del singolo bambino, che accompagna ogni giorno l’adulto verso la conoscenza dei suoi schemi di comportamento. Ci sarà il bambino che necessiterà di un approccio pratico- fisico per incanalare l’esplosione emotiva, o il bambino con cui bisognerà trovare una modalità diversa, magari grafico-pittorica, per dar voce a ciò che sta provando. L’osservazione e la capacità di ascolto profondo, anche del non verbale, saranno le armi vincenti per la gestione del comportamento oppositivo provocatorio.

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DOP, Denominazione di Origine Protetta: indica un prodotto di alta qualità, la cui zona di origine e le tradizioni utilizzate tutt’ora per crearlo lo rendono così peculiare da doverlo salvaguardare da contraffazioni.
Iniziamo a pensare al bambino con DOP, con questa determinazione della sigla e cambiando la nostra visione, pensandolo come un essere unico e da salvaguardare, saremo in grado di amarlo, sostenerlo e potenziare i suoi talenti, senza definirlo per le sole difficoltà.

Caro Papà

La paternità non la si acquisisce di default generando un’altra vita. Si diventa padri nel momento in cui si sceglie di esserlo, di impegnarsi con il proprio figlio per essere per lui  tutto ciò che racchiude, secondo il nostro sentire, la parola “papà”. Gli standard con cui si stabilisce chi è un bravo papà, generalmente sono: protezione, sensibilità, accudimento. Un padre è colui che ci accompagna nel mondo. Ma non tutti i padri sono così. Non tutti riescono a donare protezione, non tutti hanno la sensibilità libera dal pregiudizio (ricordiamo che la pubblicità simbolo degli anni 90 era “l’uomo che non deve chiedere mai”) , non tutti si sentono in grado di accudire in toto un altro essere umano. Sono per questo, per forza, cattivi padri? 

Un padre è tante cose. Prima di tutto è stato un bambino, un adolescente e infine un adulto. Alle volte è incastrato nelle prime due,  alle volte le ha superate talmente tanto da dimenticarsene.

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Nel tempo ho potuto raccogliere testimonianze diverse sulla figura paterna. Alcune possono generare rabbia, fastidio, o perfino sentimenti di ingiustizia. Vi invito però a leggerle invece con la mente aperta e il cuore spalancato, per le grandi lotte e le importanti conquiste che questi figli e questi padri  hanno compiuto, perché non sempre la strada è in discesa, spesso le consapevolezze del ruolo si apprendono strada facendo e certo, è più faticoso per i figli, ma questo non significa che non possa essere anche un esempio di crescita personale importante.


“Mio padre mi prendeva a cinghiate. Ho preso calci e pugni. Ma mi faceva da mangiare, si preoccupava che avessi il cibo pronto quando tornavo da scuola. Ad un certo punto mi sono allontanata da lui. Non volevo più vederlo. Lui ha continuato a cercarmi, a tenersi informato. Dopo anni abbiamo riallacciato i rapporti. Non mi ha mai chiesto scusa, ma ho compreso che per la sua storia personale non poteva fare altrimenti. Ho compreso che lui per me c’è sempre stato, nonostante tutto. Alla fine, il senso di cura, l’ho comunque ricevuto da lui.”


“Mio padre è morto quando ero molto piccola. Non si è voluto curare, mi dicevano. La logica mi portava a pensare che non valessi abbastanza per lui, se nemmeno per me si era curato. Aveva preferito morire. L’ho pensato per tanti anni. Ho covato rabbia e rancore. Poi un giorno, un suo amico, incontrandomi mi disse: “hai proprio gli occhi di tuo padre. Me lo ricordo bene. Anche quando stava male non voleva andare in ospedale perché, mi diceva, “non voglio che i miei figli mi vedano così”. ” Quelle parole mi hanno permesso di comprendere mio padre. Di pensare che l’atto che giudicai egoistico per molti anni, in realtà era il suo gesto d’amore più profondo.”


“Ho odiato mio padre per molti anni. Lui faceva del male a mia madre ed io lo sapevo. Mi sentivo tradita da mia madre perché non mi ascoltava e non lo cacciava di casa, ma la colpa era di mio padre che non solo non faceva il marito, ma nemmeno il padre. Mai un “brava”,  mai un “ti aiuto io se hai bisogno”. C’era per tutti, amici, estranei… per tutti tranne che per me e per la sua famiglia. Negli anni ho covato tanta rabbia. Crescendo però ho iniziato a chiedermi cosa ci fosse dietro ed ho capito che soffriamo della stessa “malattia”: non ci sentiamo amati e apprezzati. Mio padre cerca approvazione fuori casa perché pensa che noi lo consideriamo un buono a nulla. Ho compreso mio padre e ho liberato me stessa da questo sentimento di rancore continuo. Ora il nostro rapporto è abbastanza sereno. Ho un figlio, lui fa il nonno ed è un bravo nonno.”


“Mio padre non è mai stato presente. Era sempre via per lavoro. Ma ricordo che quando la mattina era a casa, mi faceva l’uovo al tegamino e le fettine sottili sottili di mela. Ho pochi ricordi della mia infanzia, a volte anche distorti. Credevo che mio padre non ci fosse alle mie gare di sci, invece ho scoperto che lui era presente. Io non me lo ricordo, ma lui c’era. Ha lasciato mia madre quando avevo 25 anni, per un’altra donna. Ho passato i restanti 26 a detestarlo, seppur non apertamente, per la ferita che aveva inflitto a mia madre. È mancato senza che ci chiarissimo. Ora ho capito che ho portato un peso non mio e ho perso l’occasione di costruire un rapporto con mio padre, ma sto faticosamente cercando di ricostruire una verità su ciò che è stato.”


“Mio padre è sempre stato il mio pilastro. Le decisioni in casa le prende lui. Che fosse per gestire le nostre uscite serali o per il colore della macchina nuova, o le vacanze estive. Mio padre sceglieva e sceglie per tutti. Non perché sia un padre padrone, ma perché lui è quello saggio, quello che sa qual è la decisione giusta per tutta la famiglia. Senza mio padre non so come farei”


“Il mio papà è un giocherellone. Ha giocato con me fin da bambina. Era il mio compagno di avventure. Con lui facevo cose pazze, giocavo al Nintendo e mi divertivo un sacco. Non è il mio “vero” papà, ma per me è come se lo fosse. Gli sarò sempre grata per avermi accolto nella sua vita e avermi reso sua figlia.”


“Mio papà è a volte burbero, a volte spiritoso. Devo osservarlo bene per capire in che giornata sia. Mi rimprovera spesso e sottolinea sempre le stesse cose. Certo, anche io non miglioro e gli somiglio anche, perché quando litigo con qualcuno ripeto le stesse cose più e più volte. Con mio papà parlo poco di come mi sento, lui non esprime molto le sue emozioni e anche io le tengo per me. Però parliamo di tanti argomenti, lui è uno con molta cultura e mi piace quando mi spiega le cose che non conosco. Mio papà poi mi porta a sciare e a fare sport. A lui piace e anche a me. Sono i momenti migliori. Gli voglio bene e so che anche lui me ne vuole molto.”


“A me piace molto il mio papà. Abbiamo il nostro saluto segreto, facciamo la lotta insieme e sa quali cibi mi piacciono di più. A volte litighiamo, ma lui poi mi chiede scusa, mi guarda con i suoi occhietti e, anche se sono arrabbiata, mi passa la rabbia perché mi fa tenerezza.”


“Non mi sono mai sentita amata da mio papà. Non mi sono mai sentita abbastanza per lui. Ero la ribelle, la rompiballe, quella difficile da gestire. Questo mi ha portato a non sentirmi mai abbastanza per nessun uomo e nemmeno per me stessa, perché mi giudico sulla base di quanto piaccio agli altri. Penso di essere sbagliata perché non trovo la persona per me.”


“Mio padre era un testa di ….. . Ma con il senno di poi ho capito molte cose. Ha vissuto la sua vita soffrendo moltissimo per questioni famigliari importanti. Io e mia madre eravamo spesso soli. Lui ha vissuto per il suo lavoro. Lo consideravo semplicemente così: uno che lavorava e che fondamentalmente pensava a se stesso. Ha iniziato a stare male ed essendo figlio unico toccava a me occuparmene. L’ho fatto con quel rispetto dovuto in quanto figura paterna. Io, uomo dai valori saldi, non avrei potuto abbandonare mio padre, proprio in quanto tale. Ho scoperto che era bello prendersene cura. Che poteva essere fragile anche lui e che non era l’uomo che pensavo che fosse. L’ho salutato con dolore e lo ricordo con profondo affetto e molta più comprensione per come mi ha cresciuto. Se sono quello che sono è anche grazie a lui.”

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Questi padri e questi figli hanno fatto o stanno ancora facendo, un percorso di crescita insieme, giorno dopo giorno, sbagliando e perdonando, gioendo e soffrendo. Dobbiamo essere grati alla vita per le trasformazioni che permette, per le consapevolezze che ci fa raggiungere attraverso le esperienze.
Grazie ai papà che accompagnano i loro figli con amore e dedizione. Grazie ai papà adottivi, quelli che scelgono di essere padri. Grazie ai papà che sono pronti dal primo giorno ad accogliere i loro cuccioli. Grazie a coloro che diventano padri strada facendo, mostrando ai figli che si può sbagliare, ma anche rimediare. Grazie ai padri che non sentendosi tali scelgono di non esserlo o di non esserlo più: anche questo è, alle volte, un atto di rispetto verso i figli, seppur dolorosissimo. Grazie a quei padri che camminano con i loro figli mettendosi in discussione. A quelli che si commuovono guardando i propri bambini; a quelli che sono come nei film “orsi giganti che proteggono i loro cuccioli”, supereroi a viso scoperto.
A tutti voi, padri, grazie per il dono della vita.

“Caro papà,

sii il meglio che puoi, con i mezzi che hai. Se puoi, non ti arrendere con me, mi fido di te. Se puoi abbracciami la sera prima di andare a dormire, se non puoi mi basterà la tua buonanotte.

Caro papà, io ti aspetto sempre, ti accetto e ti perdono se serve. Sii indulgente con me. Fammi strada senza togliermi la luce e la fatica, seguirò i tuoi passi, ma voglio compiere i miei.

Caro papà, a volte ti farò vedere una nuova via, se puoi seguimi, scopriremo insieme nuovi orizzonti, se non puoi mi basterà un tuo sguardo di approvazione.

Caro papà, faremo grandi cose insieme, perchè saremo, da ora e per sempre, padre e figlia, padre e figlio. “


Buona festa!

Vedere il dolore invisibile: eutanasia e consapevolezza sociale

23 anni e sentire già il peso della vita. 23 anni e desiderare di morire per smettere di soffrire.
Una sofferenza così profonda, da non poterne toccare il fondo. Scorgerla infinita e credere che non ci sia più una via di uscita verso la Vita.


Shanti De Corte, belga, ha chiesto e ottenuto l’eutanasia per grave depressione e stress post traumatico. La ragazza all’età di 17 anni era sopravvissuta ad un attacco terroristico a Bruxelles. La sua vita da allora non fu più la stessa. La paura invase completamente la sua esistenza. Non riusciva ad uscire di casa, ad andare a scuola, a vedere amici. L’unica risposta che parve efficace fu la farmacovigilanza, con ben 11 antidepressivi giornalieri, per tenere sotto controllo tutti i sintomi.

Shanti De Corte (facebook)


Non cadiamo nel giudizio di una sua richiesta, né rispetto al suo sentire. Chiediamoci che cosa la società ha sbagliato verso questa ragazza. Che cosa si poteva fare per lei all’epoca dei fatti? Che cosa durante tutti questi anni? Abbiamo veramente fatto tutto il possibile per sostenerla? E non mi riferisco ai suoi genitori, che solo loro possono sapere il dolore che provano e che hanno provato. Parlo della società intera e del sistema che ha permesso ad una ragazza di 23 anni, di credere che non ci fosse più nulla da fare per lei. Di pensare che il dolore fosse più grande della gioia. Di credere che il male vincesse sul bene. Perché questa responsabilità va presa.
Negli anni ci sono state diverse riflessioni sull’eutanasia. Da un punto di vista religioso, sociale, culturale. Ci si domanda quando sia giusto concederla e quando no. Ma anche questo sarebbe un giudizio sulla scelta finale, senza invece porre l’attenzione al prima. Generalmente viene concessa per gravi difficoltà fisiche, dolore cronico e non alleviabile. È forse stata la prima volta ad essere stata concessa per il dolore invisibile: quello dell’anima. È forse questo che ci ha colpito maggiormente. Era un dolore non visibile, non palpabile, non misurabile, non udibile, che non rientrava in qualche tabella medica, eppure è stato preso in considerazione. La riflessione necessaria riguarda il fatto che per la prima volta, il dolore dell’anima ha avuto un importanza storica rilevante, al pari del dolore fisico. Questo però ci concede da un lato di mettere un punto importante sul fatto che la mente è fondamentale tanto quanto il fisico e pare una banalità, ma non lo è; dall’altro di iniziare a pensare a quali modi ci possono essere per far sì che non accada più. L’educazione è parte integrante di questa responsabilità. Il dolore invisibile va reso visibile, va visto e sentito. Bisogna educare i bambini, i ragazzi a rimanere sintonizzati sugli occhi degli altri, connessi al sentire profondo, affinché il dolore non passi inosservato.


Abbiamo subito una sconfitta importante con questa sentenza. Una ragazza è morta e mentre il progresso scientifico avanza continuamente e cerca e trova nuovi metodi, nuove sperimentazioni per le malattie più rare, più complesse e menomanti, al fine di evitare il più possibile un dolore così insopportabile da portare al desiderio della morte, meno si sente il movimento che sostiene il dolore psichico. Non possiamo più permettercelo. In un mondo di attentati; pandemie con restrizioni che minano gravemente la vita sociale; crolli economici e finanziari mondiali che portano al collasso moltissime aziende e conseguenti famiglie; il dolore dell’anima, quello profondo e invisibile, può portare a suicidi, a fine vita assistiti, a trovare comunque nella morte, l’unico sollievo possibile.

Non chiamatela depressione con un certo grado di disprezzo e di svalutazione. Non sminuite le situazioni, i drammi, il dolore profondo. Aprite gli occhi negli occhi dell’altro. Osservate, scrutate, accarezzate. Dobbiamo cercare e trovare nuove strade, continuare a tentare, a provare, a tastare territori inesplorati, per poter dare delle risposte più efficaci a situazioni drammatiche che segnano inevitabilmente la vita di chi le subisce, ma non può e non deve far arrivare una persona al punto tale da vedere nella morte l’unica fine possibile al dolore.


Il suo nome significa “pace”, che possa averla trovata in quella morte che le è sembrata rifugio.  

La solitudine dei bambini

“Quando mi vedi solo, che gioco con un rametto, un filo d’erba o osservo le nuvole, non ti crucciare, non sono solo, sono con me stesso. Un me divertente, riflessivo, con cui mi piace stare. Non sono solo. Sto da solo. Non sono triste per questo, sono io che lo ricerco. E’ uno stare con me stesso che mi permette di ascoltarmi, di esplorare il mondo, di analizzare, sentire… “

Troppo spesso l’adulto presume che lo stare in disparte di un bambino all’interno di un gruppo sia indice di un problema. Difficoltà sociale od emotiva, ma in ogni caso, sintomo di un qualcosa che non va . In realtà, l’accezione negativa alla solitudine la diamo noi adulti e spesso in modo frettoloso parliamo di “asocialità”. Gli adulti spesso non sono in grado di stare con sè stessi e per questo hanno BISOGNO degli altri. Da questo paradigma culturale nascono le convinzioni che lo stare da soli, a prescindere dal fatto che sia o meno una libera scelta, non sia mai sinonimo di Ben-Essere, ma sempre di Mal-Essere.

Dice Wikipedia: “La solitudine è una condizione e un sentimento umano nei quali l’individuo si isola per scelta propria (se di indole solitaria), per vicende personali e accidentali di vita, o perché isolato o ostracizzato dagli altri esseri umani, generando un rapporto (non sempre) privilegiato con se stesso.” 

Riflettendo…. Se pensiamo a quando da ragazzi si instauravano quei legami di amicizia molto forti, in cui si viveva quasi in simbiosi, quando finivano o quando non ci si poteva vedere, come ci sentivamo? Persi. Disconnessi da noi stessi. Questo perchè si creava una sorta di DIPENDENZA AFFETTIVA, tipica nelle storie d’amore, dove il bisogno dell’altro genera una sofferenza tale da paragonarla alla disintossicazione. Pensate invece ora a quanto sia importante drogarsi di se stessi. Conoscersi a fondo, sperimentarsi, sentirsi. Cercare l’altro non per bisogno, ma per scelta, quanto deve essere liberatorio? Per noi e per l’altro. Alcuni bambini sono così naturalmente, senza interferenza alcuna. E cosa fa l’adulto? Lo crede sbagliato, lo etichetta, cerca di deviarlo per farlo entrare in relazione costante con i pari, pensando di aiutare il proprio bambino o alunno in realtà si crea un danno enorme.

Sicuramente è necessario partire dall’osservazione del bambino o della bambina. Quando si isola? Per quanto tempo? Quali emozioni trasmette il suo corpo? Com’è il suo viso? Se ci avviciniamo cosa prova? E’ assente o presente? Partecipa ad attività di gruppo? Come si relaziona con gli altri? Quali emozione esprime con maggiore frequenza? Piange? Ride? Gioca o sta fermo? Osserva gli altri o sta nel suo mondo interiore? Fantastica o resta su un piano reale? Gli altri lo cercano? Con l’adulto che relazione sviluppa? Queste e moltissime altre domande possono fare da sfondo all’occhio che osserva e dovranno essere rielaborate all’interno del contesto ambientale famigliare e scolastico in cui il bambino vive, prima di poter valutare se la solitudine di cui si accerchia sia utile al suo sano sviluppo o stia diventando un impedimento.

L’interesse di cui sono prede certi bambini, risulta essere troppo per garantirne uno sviluppo sereno. Se anni fa la problematica genitoriale più frequente riguardava il fatto che i bambini venissero lasciati a loro stessi, oggi affrontiamo la dinamica opposta: il bambino iper osservato e che se non rispetta la “tabella di marcia” che il genitore ritiene idonea, egli viene snaturato, defraudato della sua identità tramite il senso di colpa e l’inadeguatezza che legge negli occhi dell’adulto.

L’attenzione alla solitudine e allo spazio che ha nella vita dei bambini si è alzata sicuramente e necessariamente negli ultimi due anni. La pandemia da Covid-19 ha impedito i rapporti sociali, la permanenza a scuola, le visite ai famigliari. Ci ha isolati. Questo ha generato una forte pressione psicologica ed una accelerata ancor più importante verso l’equazione solitudine=malessere. Se c’è una cosa però che possiamo aver appreso in questo delicato periodo è anche la capacità di sentirsi vicini pur essendo fisicamente lontani. Questo significa che pur stando isolati, un filo che ci unisce lo abbiamo sempre, se lo desideriamo. Sta qui la grande ricerca della verità. La libera scelta di ognuno di noi e la comprensione nonchè accettazione e fiducia che l’adulto ha , del e nel , bambino che ha messo al mondo. Ogni bambino è competente. Sa quello che è meglio per lui, per il suo sviluppo. Restando con occhio rivelatore, poniamoci in ascolto, depuriamoci dalle equazioni impure e meditiamo sulle intenzioni e le percezioni. La realtà viene filtrata dal nostro vissuto, per cui più siamo liberi da preconcetti, più possiamo sostenere realmente la vita dei nostri bambini.

Nel metodo Montessori il lavoro singolo è necessario alla formazione dell’individuo che in quanto essere unico e irripetibile, ha esigenze del tutto personali che lo guidano alla ricerca dell’attività atta a soddisfare il periodo sensitivo che sta vivendo. L’adulto può avere il ruolo di facilitatore e sostenitore della vita che si sta formando, solo se ripone fiducia nel bambino, se riesce a vederlo senza i suoi filtri, così com’è, nella sua interezza ed unicità, rispettandone la natura, permettendogli di mostrare sia i talenti che le difficoltà, per alimentare gli uni e lavorare sulle altre. E’ dunque comprensibile ora l’importanza del lavorìo individuale, concentrato e personale del bambino, che sta apprendendo le fattezze del mondo, ne sperimenta le leggi, studia le combinazioni e si pone domande a cui, scientificamente, proverà a dare risposta se gliene viene data la possibilità.

immagine de “Il Mondo di Anya”

Pensate dunque se è così fondamentale la solitudine per apprendere ciò che è esterno a noi, quanto sia necessaria per sentire ciò che accade DENTRO di noi. Le emozioni, le sensazioni, i sentimenti, le domande, i dubbi, riconoscere i talenti, il proprio corpo e i suoi segnali. Vogliamo dunque noi intrometterci in questo magic moment tra il bambino e se stesso, pensando superficialmente che se non gioca sempre con qualcuno diventi asociale o sviluppi un’incapacità relazionale?

La riflessione nasce dunque spontanea e forse, la solitudine può iniziare ad essere vista anche come una forma di meditazione necessaria all’equilibrio e all’armonia con se stessi.

IL DOLORE INVISIBILE DEL LUTTO PERINATALE

Esistono dolori così profondi che risultano invisibili. Delle lacerazioni così intime che se non accarezzate, cullate, ascoltate, possono portare ad una morte silenziosa. Il dolore consuma. Alle volte lascia uno straccio umido a terra e spera che qualcuno lo possa raccogliere. Le lacrime versate sono così tante che il corpo si asciuga. Il cuore spezzato in mille piccoli pezzi non sa se battere più forte per tentare di restare in vita o lentamente per conservare energia sufficiente per battere ancora a lungo. È un dolore sordo ma acuto, lancinante. Guaisce come un cane abbandonato, ma la voce resta muta all’interno di noi. Il lutto perinatale che tantissime donne hanno subito e subiscono è un qualcosa di illogico. Nella naturalità del ciclo vitale, la morte arriva dopo aver vissuto a lungo e i genitori muoiono prima dei figli. Qui il processo si inverte e ci si ritrova a dover affrontare l’innaturalità. La morte di un figlio è una sofferenza talmente lancinante che ti lascia solo.

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Nessuno può comprendere ciò che stai vivendo: le sensazioni di perdita, le emozioni di rabbia, di ingiustizia che stai attraversando. La convinzione profonda che nemmeno il papà del bambino stia vivendo la medesima sfida, ci porta ad auto-isolarci e ad isolare l’altro.
Non è semplice avvicinarsi a chi sta soffrendo così tanto. Le parole non sono mai abbastanza. Il contatto a volte viene rifiutato. La paura di mostrare tenerezza verso il dolore e che questa venga vista come pena, porta spesso all’allontanamento. Così la madre si isola, il padre viene escluso, gli amici si allontanano e la sensazione di vuoto si allarga. Il baratro diventa profondissimo e tu sprofondi dentro. Vorresti morire, spegnerti, lasciarti andare. Lotti con il tuo corpo che conserva l’istinto di sopravvivenza. Lotti con la convinzione che resterai per sempre infelice. Il corpo si irrigidisce, il dolore diventa anche fisico. Ti guardi allo specchio e non sai più chi sei. Vedi una persona che non sei tu, ma che sai ti accompagnerà da ora in poi. Non ricordi l’ultima volta che hai respirato, o forse sì, è l’ultima volta che hai visto tuo figlio. Nell’ecografia o mentre dormiva nel suo lettino, all’interno di un’incubatrice o sul monitor dell’ospedale. Dopo non hai respirato più. Lui non c’è più e una parte di te si è seppellita insieme a lui.

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Lo hai sognato, immaginato, amato, sentito, visto, portato, nutrito. E poi non c’era più. Anche il tuo compagno lo ha sognato, immaginato, amato, sentito e visto. Lo ha portato con te prendendosi cura di voi, lo ha nutrito nutrendo te. Anche lui ha perso tanto. Anche lui vive l’ingiustizia. Si era visto padre, sognato situazioni, vissuto emozioni. Lo ha immaginato al mare, la sua prima volta sulla sabbia e l’acqua fredda; quando gli avrebbe insegnato ad andare in bicicletta o lo avrebbe guardato dormire beato pensando che fosse la cosa più bella che avesse mai visto. Avete perso insieme la partita più grande della vostra vita, state vicini. Non vi perdete anche voi. E non illudetevi. Non ascoltate i consigli maldestri di chi per consolarvi vi dice di farne un altro che poi passa. Non passa. Non passa mai. E se non elaborate questo dolore, se non lo rendete più dolce, più sopportabile, vi lascerà a terra o peggio ancora, lo trasporterete in modi diversi sul figlio o la figlia che arriveranno dopo la sua morte.
Abbiate cura di voi e sappiate che non siete soli.

CiaoLapo Onlus è un organizzazione che si occupa di lutto perinatale e di accompagnamento e sostegno psicologico a chi affronta la dolorosa esperienza della morte del proprio bambino in gravidanza e nei primi mesi di vita. Sicuramente ci saranno altre organizzazioni di sostegno al lutto perinatale, io conosco loro, per questo mi sento di pubblicarne il nome.

Potrebbero esistere anche gruppi di autosostegno gestiti ed organizzati da chi ha subito questa perdita. Fate una ricerca nella vostra zona. Ci sono molte più persone di quante crediamo all’interno di questo burrone.

Per concludere vi lascio una riflessione personale che per me è stata di grande aiuto, ciò che mi ha permesso di andare avanti: partorire o far continuare a vivere la mia bambina, anche se in un modo diverso. Questo mi ha salvata. Nel mio caso mia figlia è nata con un progetto di un centro polifunzionale per il bambino e la famiglia chiamato Il Mondo di Anya 💚.
Ci sono milioni di modi per far nascere e vivere un bambino. Scegliete la vostra strada. In qualche modo così ristabilirete i posti a tavola al pranzo di Natale in famiglia.
Un abbraccio a tutti voi!
Manuela

Mamma single: tra gioie e dolori

Essere una mamma è già un arduo compito, ma essere una mamma single ancora di più. La sera quando si rientra a casa non si può condividere la propria giornata sgravando la mente dai troppi pensieri, anzi… ci si ritrova a dover pensare ai problemi dei figli e, nel peggiore dei casi, anche a tentare di trovare un dialogo perduto con il padre/ex compagno. E’ difficile tenere insieme tutto quanto: figli, lavoro, casa, economia, rapporti con l’ex e perfino se stessi. Si cade alle volte,ma non ci si può permettere di attendere qualcuno o qualcosa che ci aiuti a rialzarci, nè possiamo farlo fare ai nostri figli. Dobbiamo farlo noi e velocemente anche, perchè questo è ciò che ci si aspetta, questo è ciò di cui gli altri hanno bisogno. Ma voi, care mamme single, di che cosa avete bisogno? Inizialmente quando i bambini vanno dal papà si sente un vuoto che pare incolmabile, si ha troppo tempo per pensare ed arrivano i deliri più bui. Quando la situazione si assesta e si ha modo di riflettere serenamente sul tempo in solitaria, emergono impegni vari, che svagano, impediscono la caduta. Ma sei sicura che sia questo ciò di cui necessiti? Non lo sai. Spesso non lo sai nemmeno tu. Alle volte vorresti spegnere la mente e lasciare che tutto vada come deve andare, senza fare la tua parte per far girare la ruota. Ti domandi cosa succederebbe, se tutto continuerebbe comunque a ruotare. Certo che continuerebbe. Si sopravvive e si va avanti. Per qualcuno però, senza di te, sarebbe mera sopravvivenza.

Lotta cara mamma. Con le bollette, il cuore ballerino, le incertezze, l’ex, i figli, la vita stessa. Lotta per il tuo posto nel mondo, per ottenere il rispetto della gente che ti guarda con occhi giudicanti, spesso di scherno. Esistono, anche se raramente, sguardi complici, comprensivi, addirittura di elogio. Che ti siano di sostegno, mamma. Sei una grande mamma! I tuoi figli lo sanno, anche quando sembra di no. Nel tempo, con la crescenza, lo capiranno ciò che sei, quanto amore nutri e quanto di te hai messo in gioco per loro.

Ci sono o ci saranno momenti in cui penserai: ma chi me l’ha fatto fare. Saranno quelli i momenti in cui arriveranno e ti diranno “mamma, ti voglio bene!”Il loro sguardo guarisce ogni ferita, riporta la pace dopo ogni litigio. Tu ci sei. Loro ci sono.

Ci sono periodi di incertezze, di paure che devi tenerti dentro. Lo so cara mamma, non dubitare di essere sola. Cerca rifugio. Un figlio ammalato quando sei single vuol dire preoccupazione amorevole, problemi organizzativi, ansia da tenere a freno. Perchè restare sola? Le donne dovrebbero sostenersi a vicenda, come sorelle. I figli creano preoccupazioni, ma ci sono attimi, piccoli e infiniti, in cui li guardi e sai, con assoluta certezza, che non potevi fare nulla di meglio. E’ per tutti questi attimi che ogni mamma si rialza, che continua la sua lotta, che riemerge dalle ceneri. C’è una cosa però che hai paura di permetterti ancora: l’errore. Temi di incontrare una persona e che questa possa nuovamente colpirti e di riflesso i tuoi figli. Ma cosa sarebbe una vita senza amore? E’ questo che vuoi passare ai tuoi cuccioli? La paura di amare la persona sbagliata? Se li guardi sai già la risposta, perchè loro sono l’amore più grande e senza una forma d’amore non si può vivere. E dunque mamma, non smettere di essere Donna, di sbagliare, di soffrire, di gioire ancora. Sii la parte migliore di te e quando non ci riesci, perdonati. Usa per te la stessa clemenza con cui guardi i tuoi bambini. Te ne saranno grati.

E lo so cara mamma che a volte sei stanca, sfinita, sfibrata, piena di sensi di colpa. Che ti arrabbi, piangi e ti incolpi per non essere la mamma perfetta. Ti destreggi tra mille faccende e il tempo scorre veloce, non basta mai. Lo so che a volte hai paura di non essere abbastanza. Abbastanza brava, abbastanza forte, abbastanza indulgente, severa, dolce, spiritosa, fashion, gentile, giusta, abile, sportiva o chissà cos’altro. Non ti nascondere. Mostra le tue emozioni. Anche quelle più scomode. Lo so che un giorno hai guardato tuo figlio o tua figlia e hai pensato: “non lo riconosco più”. Un altro giorno però ti ha stupito con lo stesso effetto grandioso, facendo un gesto che riconosci come tuo, un gesto che hai fatto mille volte per insegnargli che è così che si fa. E così lo guardi e spero che ti sarai congratulata con te stessa perchè è anche merito tuo.

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Ti invito ad annotare come ti senti, nei giorni buoni e nei giorni meno buoni, quando tuo figlio fa qualcosa di inaspettato e quando invece ritrovi lo spirito che conosci; quando ti prendi cura di te, quando ti trascuri, quando ti concedi un’opportunità e quando ti permetti di sdraiarti sul divano e riposarti. Ti invito poi a non restare sola quando ti senti sola, a chiedere aiuto, a sostenerti e a sostenere con la tua esperienza altre mamme come te. Ti invito a scrivermi, all’indirizzo di posta elettronica apiccolipassisicresce@gmail.com e a condividere con me la tua esperienza se ne avverti la necessità. Ne potrebbe nascere una rubrica o ancor meglio un gruppo di sostegno presente sul territorio. Tu ci sei, io ci sono, è già un inizio.

Ora siediti se puoi, guardati e sii fiera di ciò che sei.

Crescere Genitori

Quando si diventa genitori la propria vita cambia completamente, subisce uno stravolgimento emotivo, fisico, psichico, in termini di tempo, di priorità, di sentire, di essere. Un essere vivente dipende da noi, ci sentiamo investiti di responsabilità e non sempre ci sentiamo adeguati. Si leggono libri, si frequentano corsi pre-parto, si accettano consigli da parenti e amici che “ci sono già passati”, per tentare di rimanere in piedi, di sentirsi in grado, di farsi amare dal proprio cucciolo. Ci sono guru o presunti tali che vendono formule magiche, libretti di istruzioni, come se tutti i bambini e i genitori fossero uguali, come se noi non potessimo compiere scelte adeguate seguendo il nostro istinto. Non sono mai stata fan di chi promette miracolose soluzioni uguali per tutti, credo che ogni genitore nasca tantissime volte dal momento in cui viene al mondo un figlio. Nulla è statico. Come nostro figlio o nostra figlia crescono, così anche noi esploriamo il nostro nuovo ruolo, lo abitiamo, ce ne innamoriamo, a volte vorremmo uscirne fuori, altre volte ci usciamo davvero per poi rientrare dalla porta sul retro con una prospettiva tutta nuova, che ci porta a ri-nascere ancora. Per questo non solo credo, ma sono certa, che non esistano corsi, percorsi, modelli, metodi o quant’altro che offrano un’unica via risolutiva per tutti, che funzionino davvero e sapete perchè? Semplicemente perchè non possono prevedere ciò che ancora non è stato vissuto, perchè ogni essere umano è un mondo in evoluzione e deve affidarsi al proprio sentire, alle percezioni, all’amore genitoriale che lo guida sempre, se viene ascoltato.

Esistono corsi formativi esperienziali davvero belli e ricchi di contenuti, dove il conduttore porta nuovi punti di vista, diverse porte di servizio che non avevamo ancora scoperto. Corsi di gruppo, in cui si entra in contatto con altri genitori che vivono i nostri stessi stati d’animo, le difficoltà, le paure, i successi e nascono splendidi confronti. Si studiano possibilità, si verificano ipotesi lavorando sul “campo”, si sperimentano nuove visioni. Ma non ci sono soluzioni immediate, senza fatica, calate dal genio della lampada che tutto risolve al posto mio. Fare il genitore implica lo sporcarsi le mani, l’impastare la propria vita, i vissuti, l’infanzia, i traumi subiti e rivedere tutto quanto per comprendere dinamiche disfunzionali che vengono attuate con i nostri figli e che ci allontanano da loro. E’ fondamentale operare su se stessi, guardare in faccia i propri fantasmi, ammettere le proprie difficoltà. Non si può pretendere di lasciare in mano ad uno sconosciuto il rapporto più importante della nostra vita, credendo che possa risolverlo per noi.

Commetteremmo un terribile errore. L’amore implica impegno, costanza, cura. Avere cura. Le cure riservate ad un neonato però non possono essere le stesse di un bambino di 4 anni o di un adolescente di 14. Ci saranno cure diverse per ogni momento della sua crescita, ma non dimenticarti, che stai crescendo anche tu. Imparerai a conoscere tuo figlio un passo alla volta. Comprenderai ciò che ama e ciò che detesta, ciò che lo fa sentire triste o felice; il suo sguardo ti comunicherà il suo stato d’animo senza necessità di parole, il suo corpo ti mostrerà i segnali di malessere che saprai decifrare a menadito. Saprai dove ha una voglia, qual è il suo sorriso imbarazzato e cosa fa quando è stanco. Non smettere di osservarlo, perchè anche alcune di queste cose cambieranno. Inizierà a camuffare la tristezza con un sorriso, giocherà ad indossare maschere inconsce e tu potresti non accorgerti di tutto ciò. Lo hai fatto anche tu con i tuoi genitori, sono tappe fondamentali per la creazione della propria identità ed il distacco dalle aspettative. Non smettere di amarlo e non credere che ti ami di meno. Cresci con lui. Adatta le tue parole, calibra la tua corda tesa, stai in silenzio, ma porgi un orecchio. Ricordati di te bambino/a e poi ragazzo/a, le tue inquietudini, il tuo caos. Condividilo magari, assaporalo e prova a ricordare come hai messo ordine. Ti servirà ora, per sentirti un genitore adeguato, per rimettere ordine nel caos di insicurezza in cui magari piombi ogni tanto. Abbi fiducia in tuo figlio/a e in te.

E dunque, quali sono le soluzioni per “crescere genitori”?

Porsi domande, darsi risposte, formulare ipotesi, verificarle, confrontarsi, ritornare indietro, mettersi in discussione, cambiare le risposte e sentire la nascita di nuove domande. Tutto questo, fino alla fine dei vostri giorni.

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