Progetto associativo o servizio educativo? Guida ad una scelta consapevole

I servizi educativi per l’infanzia, tra pubblico e privato, sono molti, ma non sempre riescono ad accogliere tutte le richieste che arrivano. Per questo  da anni sono nati diversi progetti ludici-pedagogici gestiti da associazioni ed enti del terzo settore, che hanno come Mission non solo la cura del bambino, ma il desiderio di creare una comunità educante, un coinvolgimento attivo della famiglia che ha sposato i valori umani  dell’associazione.
Essere associati in un progetto pedagogico non significa avere una tessera per poter entrare ed uscire usufruendo di servizi, come fosse un circolo privato. L’associazionismo nasce per scopi ben più alti. È l’ INSIEME di persone che credono negli stessi valori e che attraverso idee di sviluppo comuni (incontri, progetti ecc)  portano alla profusione nel mondo di questa loro visione.
Come in ogni gruppo ci sono i leader che fondano l’associazione e si donano allo scopo; ci sono persone che credono e investono fiducia in questo disegno e concorrono alla realizzazione, sempre più allargata, dell’idea madre.
Questo tipo di progetto non è dunque un mero scambio di richiesta/offerta.
È un vero e proprio connubio di intenti, di valori, che mira all’accrescimento e alla rivalutazione di concetti considerati quasi obsoleti, ma che sono la base per tornare ad un’umanità vera, di scambio quotidiano, di sostegno reciproco, nell’ottica più ampia della ricostruzione di un mondo gentile.

L’associazionismo non può essere portato avanti da chiunque. Non siamo tutti pronti a questo tipo di modello, seppur virtuoso.
Chi sente di non avere mai tempo, chi sceglie di inseguire il lavoro H24, chi pensa che l’educazione sia una cosa che compete alla “scuola”, chi sostiene che basti accompagnare i figli e andare a riprenderli, chi non crede che i bambini capiscano tutto, chi pensa di essere “fatto così” , chi non ha voglia di passare qualche giornata con gli altri, chi pensa che il prodotto sia più importante del processo,  lasci perdere l’associazionismo. Non è la vostra via.
Non sarebbe un percorso che vi darebbe soddisfazione, perché è un percorso impegnativo, volto alla costruzione di nuovi pilastri educativi, portato a distruggere le certezze per ricostruirne di nuove, promotore di valori che nella società attuale possono apparire anticonformisti: rispetto dell’altro, fiducia, sostegno reciproco, tutti per uno e uno per tutti, il riciclo creativo, l’educazione emozionale, la libertà di scelta.
Insomma, cose di una volta, che non fanno rima con consumismo, conformismo ed egocentrismo; con fretta, diffidenza e lontananza; con dovere, superficialità e ambiguità.
I contesti associativi NON sono dei servizi. Il contributo che viene offerto è per il sostegno delle spese e la realizzazione dei progetti che l’associazione promuove. La partecipazione dei soci non è solo necessaria per portare avanti le attività istituzionali, ma è fondamentale per consolidare e concretizzare l’idea di comunità cui si aspira e mostrare la via ai più giovani, affinché lo stare insieme per creare bellezza diventi uno stile di vita.
Entrare a fare parte di un’associazione significa questo. La scelta dunque di associarsi deve essere ben ponderata.

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Questa premessa per poter approfondire il tema della ricerca della  realtà più adatta a noi e al nostro sistema famigliare.

Come scegliere dunque il contesto ludico/educativo/formativo dei nostri bambini/ragazzi?
1)Informarsi sui valori e su ciò che l’ente promuove.

2) Leggere il progetto per comprendere se fa parte di noi, se risuona all’interno del nostro cuore, o se invece non è un impegno che ci sentiamo di assumere in questo periodo della nostra vita.

3) Guardare negli occhi chi ha fondato il progetto che stiamo valutando, sentire ciò che ci trasmette a pelle, ciò che arriva dentro di noi osservandolo.

4) Percepire l’ambiente intorno, se è un posto in cui noi vorremmo stare, se le attività e le proposte ci sembrano interessanti per il nostro bambino/a, partendo da una base di conoscenza delle tappe di sviluppo  e del significato di certe attività rispetto ad altre.
Vediamone alcune:
-La libertà di scelta. È facilmente intuibile se un ambiente è stato preparato a questo scopo oppure no. I materiali sono alla portata dei bambini? Ci sono molteplici attività  che il bambino può scegliere?
Perché vorremmo che nostro figlio/a avesse questa opportunità? La possibilità di scegliere cosa desideriamo fare (inteso come attività da svolgere) significa IMPARARE AD ASCOLTARSI. A scegliere il bene per noi stessi. Significa attuare anche un certo grado di RESPONSABILITÀ, perché scegliere significa anche questo.
-Le attività di vita pratica. Le attività di vita pratica sono coloro che fondano le basi per la CONCENTRAZIONE del bambino/a. L’opportunità di svolgerle apre le porte alle riflessioni che il bambino può compiere durante l’attività, nonché alla conquista di movimenti atti alla fase della scrittura ( che il bambino svolgerà in seguito) e alla memoria di lavoro data dalla sequenzialità dei movimenti per poter compiere il lavoro fino in fondo.
-Materiale auto-correttivo. Se l’ambiente contiene materiale auto-correttivo significa che il bambino avrà l’opportunità di correggersi da solo, di compiere il processo intuitivo che gli consentirà di trovare l’errore e ipotizzare soluzioni diverse, fino a trovare quella esatta.
-Spazio esterno. La possibilità di stare all’aperto dev’essere giornaliera, anche nella stagione fredda. Gli apprendimenti che  avvengono tramite il gioco libero, auto-organizzato, in natura, non possono avvenire in altri contesti e sono essi preziosa fonte di nutrimento motorio, scientifico,  sociale ed emozionale per il bambino. Oltre al fatto che stando molto fuori si ammalano meno perché il freddo Non fa ammalare, anzi, stimola il sistema immunitario, abbatte i batteri e la proliferazione dei virus.
-La passione degli adulti che accompagneranno i bambini durante la giornata e l’approccio pedagogico attuato. Nello sguardo di chi vi accoglierà e vi mostrerà la proposta dovrete leggere la passione per questo mestiere. È una scelta di vita, non si può pensare di farlo senza la scintilla negli occhi. Chiedete la storia del luogo, questo vi porterà a cogliere le fondamenta su cui si erge il tutto. Prestate attenzione all’approccio pedagogico e alle basi su cui si muove. Sentite se è coerente con la vostra visione, se è ciò che sentite più giusto per il vostro modello educativo, le vostre credenze, la vostra cultura.


Ci possono essere milioni di fattori che incidono sulla scelta di un luogo, di un progetto o di un servizio educativo. La cosa importante è cercare quello che ci rappresenta di più, perché i bambini hanno bisogno di COERENZA, di sentire che il genitore si fida di coloro a cui li affida. Per questo scegliete con cura, con calma, ponderate. Siate vigili e mettete in discussione con consapevolezza.
E se sceglierete un progetto associativo, partecipate in ogni modo possibile, è una grande opportunità per conoscere non solo la realtà che avete scelto con attenzione, ma anche per mostrare a  vostro figlio il mondo che vorreste: partecipativo, attivo, collaborativo, coeso, creativo e fiducioso.

C di Coerenza per sostenere l’adolescenza

Ahhhhh l’adolescenza! Quell’incredibile e sconcertante momento in cui stai parlando con tuo figlio/a e d’improvviso se ne va arrabbiato e offeso e non sai nemmeno il motivo. Quel periodo in cui tutto quello che dici è dannatamente sbagliato, quello dell’incomunicabilità. Di colpo, in casa, ti sembra di avere una persona che parla un’altra lingua, uno straniero venuto da lontano, che ha le sembianze del tuo caro ragazzo/a, ma con cui non riesci a parlare, non vi comprendete. Nonostante i tuoi sforzi di leggere le sfumature, i sorrisi, gli sguardi truci, non ce la fai, non li comprendi e alle volte ti fanno pure arrabbiare. Ed è lì che da una scintilla ti ritrovi in casa l’incendio che viaggia a velocità supersonica e tu non sei un pompiere. Non hai l’estintore o non lo sai usare. Cosa puoi fare?
Avvolgiamo per un momento il nastro e torniamo a quando tuo figlio/a aveva 1 anno circa. Inizia a camminare, a parlare, ad interagire in modo importante con l’ambiente che lo circonda e con voi (già da prima, ma i ricordi ora potrebbero risultarvi sfumati). Bene, ora pensate a tutte quelle situazioni in cui il vostro bambino desiderava fortemente qualcosa e voi glielo avete concesso, fino al giorno in cui quella richiesta vi sembrava superata o vi pareva che qualcosa non andasse più bene e di conseguenza avete detto NO, oppure non glielo avete concesso fin da subito. Molto bene. Ora che avete la situazione in mente, iniziate a rivedere il film. Cos’ha fatto vostro figlio di fronte a quel no?
Probabilmente ha pianto, magari ha sbattuto i piedi, urlato arrabbiato le emozioni che stava provando in quel momento; magari vi ha alzato le mani, o ha sbattuto degli oggetti a terra.
E voi come avete reagito?
Lo avete consolato? Avete tentato di spiegare? Avete compreso il suo comportamento e le sue emozioni o le avete sminuite perché vi sembravano esternazioni esagerate?
E dopo che cosa è successo? Avete continuato a gestire la frustrazione dettata dal no (sua e vostra) o avete svoltato sul SÍ?
È importante che voi ripensiate a quel momento e a tutti quelli  che si sono susseguiti nel tempo, negli anni a venire.
Se avete mantenuto il punto, spiegando le motivazioni che vi hanno portato a cambiare idea (l’età del bambino è una discriminante importante.  Per esempio lo avete sempre vestito voi, da un certo giorno in avanti, decidete che può iniziare a provare da solo. La frustrazione, il senso di abbandono e di ingiustizia, di incapacità può essere avvertito in modo importante dal bambino.), avete accolto le sue emozioni, siete rimasti e lo avete accompagnato al cambiamento, o se avete lasciato andare la battaglia e avete optato per il sì, per mille ragioni, stanchezza vostra, del bambino, il dubbio di aver sbagliato a dire di no, i ricordi della vostra infanzia intessuta di negazioni, o il pensiero che il vostro bambino stia soffrendo molto e, in fondo, perchè dirgli di no?
I bambini hanno bisogno di coerenza. Certamente l’età inficia molto e i cambiamenti sono non solo necessari, ma indispensabili. Scegliete bene però le vostre battaglie.

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Se ritenete fondamentali certi NO, non fateli diventare SÌ. PER NESSUNA RAGIONE. Il bambino piangerà, scalpiterà, vi accuserà, si arrabbierà e compirà vari gesti, ma rimanete fermi come un faro nel mare. Non lasciatevi travolgere dalle sue emozioni, altrimenti rischiate di andare a fondo con lui e questo non gioverà a nessuno dei due. La frustrazione è necessaria allo sviluppo del bambino per imparare a gestire le sue emozioni, per trovare strategie di soddisfazione diverse di quello che in quel momento avverte come un bisogno, di acquisire tecniche di mediazione, di gestire l’insoddisfazione, di comprendere che ci sono dei NO necessari, dati per il suo bene. Certo questo non dev’essere uno stato permanente, una condizione costante in cui il bambino è immerso, altrimenti si può generare bassa autostima e considerazione di sè, dei propri bisogni; può generare sentimenti di scarsa cura e un  attaccamento insicuro alle figure di riferimento.
Tutto deve essere dosato e con “scegliere le proprie battaglie” intendo proprio questo. Non possiamo far sì che il NO sia il  modus operandi predefinito con nostro figlio, ma nemmeno cadere nel lato opposto. Se il nostro NO diventa SÌ, il bambino penserà che può accadere con tutti i no, che non sono così definitivi e che nella vita ci possa sempre essere una scorciatoia, basta pestare i piedi più forte.

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Ora, se torniamo all’adolescente, e vediamo un ragazzo/a cresciuto con l’incoerenza, capiamo bene come in questa fase di totale affermazione della propria individualità, dove si fa spazio la personalità, scalpitando a più non posso per distinguersi dai genitori, sia naturale il tentativo di dissuadere e schivare ogni No. Cosa ci salva?
La coerenza che abbiamo avuto negli anni. Ogni NO rimasto tale. Questo ha permesso al bambino non solo di conoscere le regole della propria famiglia, i valori e le dinamiche relazionali, ma anche il senso di quel No. Al di là delle spiegazioni che possono essere arrivate nel tempo, se quel No è rimasto tale, vuol dire che era davvero importante, vuol dire che posso farci affidamento, diventa una SICUREZZA.
Il dire sempre sì ci assicura rapporti morbidi, sicuramente poche sfide e molti grazie. Può però generare anche insicurezza, il pensiero di non essere abbastanza importante per il genitore, perché “pur di non avermi tra i piedi, mi dice di sì”. L’affermazione positiva  non è sinonimo di amore. Alle volte significa “almeno così  non mi scocci” o “vai pure almeno non mi devo occupare di te”; generando spesso moti di rancore che paiono immotivati “ti ho detto di sì perché dovresti essere arrabbiato?”  Perché mi sento in mezzo al caos e tu non mi dai una direzione sicura, mi lasci in balia del mare perché tenere il timone è troppo faticoso. È più facile lasciare che tenere. È più facile il sì del no.
Ma non saranno i sì detti per non creare frustrazione che aiuteranno i rapporti nell’ adolescenza. Saranno i NO coerenti e i SÌ sentiti che permetteranno un dialogo aperto, la gestione adeguata della frustrazione, la saldatura del rapporto anziché la rottura.
Le mie figlie sanno che ci sono dei NO che sono imprescindibili. Non provano nemmeno a farli diventare sì. Perché sono NO dalla nascita ad oggi. E ora che sono adolescenti e pre-adolescenti, quelli sono i paletti fissi, quelli sicuri, che limitano i confini e la zona di movimento che sta nel mezzo. Non sono cambiati, sono ciò che ha illuminato la loro strada e le aiuta a mantenere la via.   È questo che ci consente di tenere il rapporto al sicuro nonostante le discussioni e le arrabbiature.

Negli anni sicuramente, come detto prima, ci sono dei cambiamenti necessari e indispensabili. Non possiamo pensare di dire ad un ragazzo di 15 anni di andare a dormire alle 21, ma per un bambino invece è un orario adeguato. Ci sono dei No che variano con le fasi di sviluppo e di vita del bambino, dei No detti in circostanze particolari, per salute magari, ma ci sono dei No che non possono cambiare mai. Riguardano i valori che una famiglia sostiene, le dinamiche relazionali tra i componenti, le mediazioni ottenute tra genitori su questioni etiche magari; i No detti per salvaguardare l’incolumità dei bambini e dei ragazzi, che sia fisica o psichica. C’è un mondo intero là fuori che cambia costantemente. Siamo in balia di cose talmente grandi che tutto può apparire effimero e dire di sì, almeno noi, ci pare come una sorta di ricompensa dovuta, come un ombrello che ripara dalla tristezza. Non siamo immuni.

Dobbiamo attraversarla la tristezza per saperla affrontare; la rabbia può essere distruttiva se non impariamo a canalizzarla; la frustrazione può sopraffarci se non impariamo che siamo in grado di fare a meno di quella cosa che tanto desideriamo ora. Diamo la possibilità ai nostri bambini di sperimentarsi, credendo che ce la possano fare, stando loro accanto nel momento di crisi acuta, comprendendo i loro sentimenti, legittimandoli, ma rimanendo fermi in quella che è stata la nostra scelta, fidandoci di noi stessi e del fatto che l’abbiamo compiuta in uno stato di lucidità, per il bene del bambino.

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I nostri figli potranno anche odiarci in alcuni momenti, crederci ingiusti, rigidi, incapaci di comprensione, ma alla lunga, se siamo rimasti con loro, se non li abbiamo lasciati soli, riconosceranno che le nostre scelte, anche quelle dolorose, erano per il loro bene.

La palestra emotiva è l’unico strumento che consentirà ai nostri bambini di diventare ragazzi e adulti consapevoli delle proprie emozioni e in grado di accettarle e gestirle. La nostra coerenza sarà il faro che li guiderà nelle loro scelte future e ciò che consentirà loro di comprenderci anche nel momento in cui saremo più distanti.

IL MANTELLO PERBENISTA DEL “PER IL BENE DEI FIGLI”

La separazione dei genitori è ormai un elemento comune a molti bambini. Purtroppo però sono ancora poche le volte in cui padre e madre riescono ad accordarsi e ad affrontare la situazione nel migliore dei modi per “il bene dei figli”.
Ma qual è il bene dei figli? Chi lo stabilisce?
Ogni essere umano è unico ed inimitabile, nella buona e nella cattiva sorte. Questo, è evidente, porta ognuno di noi ad avere dei bisogni diversi gli uni dagli altri. Ciò comporta un contrasto chiaro con i criteri che si reiterano da secoli in tema di separazioni.

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Alcuni miti da sfatare che si verificano ancora troppo spesso:
1.”Il bene dei bambini è stare con la mamma” per quale motivo? Chi stabilisce che un genitore, solo in quanto donna, sia più adatto a prendersi cura di un bambino in tutta la sua complessità? Non sono forse le inclinazioni naturali, la visione del mondo, l’impegno costante, le competenze emotive, a dover illuminare certe decisioni?
2.“Il bene dei bambini è la bi-genitorialità” ma davvero riteniamo che alcuni soggetti, senza sostegno alcuno, possano essere genitori consapevoli di ciò che stanno facendo? Persone violente, con dipendenze di ogni sorta, che non si prendono nemmeno cura di se stesse? E questo indipendentemente dal sesso. Uomo o donna non fa differenza. Ci sono madri che dichiarano apertamente di non aver voluto  i figli, ma poi, pur di apparire buone e socialmente adeguate, si giocano la carta del tribunale contro i padri. Ci sono padri che non conoscono nemmeno le allergie gravi dei figli, ma che si dichiarano padri presenti e attenti ai propri bambini. Non tutti sono in grado di fare i genitori. Non possiamo pensare che basti mettere al mondo una creatura per diventarlo. E obbligare qualcuno a farlo non è una scelta che comporta benefici effettivi, né per i genitori, né tantomeno per i figli.

Che il bene dei figli sia rimanere solo con il papà non l’ho mai sentito dire, forse perché gli uomini sono più umili sotto certi aspetti e non pensano di poter fare tutto loro. Da sempre sono considerati il genitore numero 2, quello non così indispensabile. Spesso le madri si ergono ad esseri superiori, ma indossando il mantello del martire ” lo faccio perché sono capace solo io, mannaggia a te che sei un incapace” o “se non lo faccio io chi lo fa?” Di fatto si mettono da sole nella condizione del monogenitore nonostante siano ancora in coppia. Avvenuta la separazione mantengono il ruolo e l’ex ha due vie: o tentare di costruire un rapporto paritario rispetto ai figli, o mantenere anche lui il suo ruolo da padre assente . Dove stia la verità è spesso molto difficile capirlo,perché le versioni discostano sotto molti aspetti.

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Le storie di oggi sono piene di donne vittime dei propri ex mariti o compagni e tanti sono stati i segnali precedentemente, ma nessuno se n’é voluto occupare. È aberrante e inaccettabile.
Mi domando allo stesso tempo quanti uomini ci siano, vittime emotive di donne che si credono il creatore. Che si arrogano il diritto di scegliere a discapito di un rapporto padre/figli, coprendolo anche con il mantello del “bene per i figli”.
L’unico tassello univoco a tutti è che il bene per i figli sarebbe poter avere dei genitori che li amino, indipendentemente dai rapporti tra loro; che non si facciano la guerra pensando che eliminare l’altro (ritenuto inadeguato) sia “il bene dei figli”.
La manipolazione della realtà a proprio vantaggio, la cecità di fronte a palesi reazioni dei figli che indicano che si sta andando nella direzione sbagliata, magari accompagnati dalla nuova compagna/o, è un modello usuale ai più, durante e dopo la separazione. Non si vedono più, davvero, i propri figli, ma si vede ciò che si vuole vedere. Si pensa che se la situazione fa vivere bene noi, sia certamente così anche per i figli. E mentre loro si arrabattano con strategie di sopravvivenza più o meno evidenti, noi li vogliamo vedere felici, per cui questa sarà la storia che racconteremo a noi stessi e agli altri.

L’altro genitore viene dipinto come assente, immaturo e inadeguato ( padre); poco di buono, pazza ed esagerata (madre). Il risultato sta nel mezzo, dove troviamo figli che non sanno schierarsi, che se lo fanno si sentono colpevoli e che spesso, molto spesso, non vengono creduti. Se uno dei due genitori dice all’altro: “il bambino mi ha detto che… ” si viene subito accusati di essere bugiardi, se non addirittura di alienazione. Ci si ritrova così a dover abbozzare per quieto vivere, a sentirsi dei genitori inadeguati perché non possiamo sostenere il nostro bambino, o a fare la guerra pur di ottenere ciò che riteniamo giusto per i nostri figli.


Come uscire dunque da questo tunnel? Come comprendere quando stiamo realmente vedendo la realtà e quando invece indossiamo lo sguardo del nostro benessere come filtro?
1) Tuo figlio ti dice che dall’altro genitore fa qualcosa che non gli piace fare. Invece di sentirti in colpa o prendere di petto la situazione, senza sapere dove ti porterà, lavora con tuo figlio affinché piano piano possa prendere coraggio e dire al genitore in questione di che cosa avrebbe bisogno. Come fare? Rimandando al bambino che con l’altro genitore può parlare, che sarà pronto ad ascoltarlo, che la sua opinione è importante; oppure provare le strategie del problem solving cercando delle possibili alternative da mettere in atto. Fate una bella lista, con tutte le idee che vi vengono in mente (genitore e figlio), poi rileggetela e spuntate le idee che non sono attuabili. Arriverete a trovare delle soluzioni insieme, mostrando al bambino una strategia efficace di risoluzione dei conflitti, che interiorizzerà nel tempo e potrà far parte del suo bagaglio comunicativo.
2) Vostro figlio vorrebbe stare di più con voi che con l’altro genitore.
Analizzate con calma la situazione. Domandate a vostro figlio che cosa fate (o siete) che lo rende più felice quando siete insieme. Senza accusare l’altro genitore o sminuire le sensazioni del bambino, parlate insieme dei suoi bisogni. Ascoltateli. Provate a rimandare l’emozione che secondo voi provano,  per verificare se avete ben compreso. A questo punto domandatevi quale emozione scaturisce in voi tutto questo. Riguardate i bisogni del bambino e i vostri. Se riuscite, con empatia, provate a spiegare al bambino, perché in quel momento non è possibile soddisfare quel bisogno. Se sapete già che potrà essere soddisfatto, date loro una scadenza. Se vi sentite impotenti, abbracciatelo. Capirà.
3) Temete che l’altro genitore possa mettervi contro i figli.
I figli amano i loro genitori. Indipendentemente da come questi si comportino con loro. Che siano affettuosi e attenti o violenti e assenti, loro li amano comunque. E cercheranno sempre di renderli felici. Anche quando sembra che facciano di tutto per ferirli , in realtà ricoprono il ruolo che gli è stato assegnato. Vogliono dare ragione al genitore, pensando che così sia felice. I bambini vogliono il bene dei loro genitori, alle volte più di quanto i genitori vogliano il bene dei figli.
Quando un genitore parla male dell’altro con i figli, potrebbe ottenere un iniziale rapporto conflittuale tra i due, ma esso si risolverà in tempi brevi se quello che è stato riferito non è la verità. I bambini sono piccoli, non stupidi. Sentono il bene e ne sono affamati.
Si può cadere però anche nel lato opposto. Ovvero… Il genitore dice la verità e il bambino lo prende per bugiardo e non gli crede. Anche in questo caso, il bambino mostra l’amore verso il genitore che secondo lui è più fragile. Per cui si può ottenere come risvolto un maggior attaccamento.
Per evitare tutto questo, è necessario,seppur complesso alle volte, che ogni genitore pensi al proprio rapporto con il figlio, senza intromettersi nelle dinamiche con l’altro. Soltanto così il bambino sarà libero di osservare con i propri occhi, di farsi una sua opinione e di manifestare i suoi stati d’animo senza influenza alcuna. Ci si sente impotenti nel vedere la manipolazione e nel comprendere che è meglio supportare a lato ed eventualmente raccogliere i cocci, senza intervenire a gamba tesa. L’istinto ci porterebbe dall’altra parte, ma il rapporto con l’ex può influenzare la nostra visione delle cose.
4) Domandatevi se foste nei panni di vostro figlio come vi sentireste.
Chiedetevi che cosa sta provando, se corrisponde a come vi sentireste voi. Analizzate i conflitti che pensate stia vivendo e create con lui uno spazio di ascolto. Soltanto voi due. Apritevi a lui. Dedicategli del tempo vero. Dove la vostra attenzione non sia interrotta dal suono del cellulare, dalla televisione o dalle parole di un altro adulto.
5) Non rinnegate il passato.
Avete vissuto con il padre o la madre dei vostri figli per un certo tempo di vita. Avete condiviso gioie e dolori. Vi siete amati e magari anche odiati. Ma da quel rapporto sono nati i vostri figli, che meritano di sapere che i loro genitori si sono amati, che il rapporto è mutato, ma il rispetto resterà sempre. Hanno bisogno di saper e che in qualche modo, una parte di amore resterà per sempre. Altrimenti non crederanno più ai vostri “ti voglio bene”. Penseranno che sarà così finché non faranno qualcosa che vi farà arrabbiare davvero. E da lì, allora, odierete anche loro.
Dobbiamo dare loro l’assoluta certezza che il nostro amore per loro non passerà mai. Dobbiamo essere coerenti. Se passiamo dall’amore all’odio con facilità in rapporti importanti, è come se confermassimo loro che prima o poi li abbandoneremo, esattamente come abbiamo fatto nella relazione con l’altro genitore.

Non ci sono formule magiche per una “separazione serena”. I due termini insieme già suonano come una dicotomia.
Ma lo scopo di tutto questo è ricordarsi che non esiste “IL bene dei figli”; esiste l’idea che ognuno di noi ha rispetto a questo e l’unica legge che davvero dovremmo tenere a mente è quella di continuare a rispettarsi nonostante tutto e ad osservare i nostri figli, senza filtri attivi.
Questa è l’unica base per il vero bene dei figli. Da lì si può partire a costruire tutta la parte gestionale e organizzativa, tenendo presente le esigenze e i bisogni dei bambini, partendo dai loro sguardi. Ricordandosi che fare il genitore è un onore, non un peso. Per cui non siamo eroi se abbiamo un nucleo monogenitoriale o se stiamo con i nostri figli la maggior parte del tempo perché l’altro genitore è impossibilitato da eventi o da volontà. Noi siamo quelli fortunati. Quelli che possono godere di momenti importanti che non torneranno più. Non sentiamoci eroi e nemmeno martiri, vittime di uomini o donne latitanti che non ricoprono il loro ruolo. Sentiamoci grati per poter godere ogni giorno della presenza dei nostri figli, del loro amore e dei loro preziosi insegnamenti.

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Cari mamma e papà,
ho due anni e non capisco
come mai devo stare a volte lontano dal papà e a volte dalla mamma. Voi me lo avete spiegato, ma io non ho capito bene. Vorrei potermi addormentare ogni sera con la favola del papà e il bacio della mamma, vorrei potermi arrabbiare con uno e farmi consolare dall’altro per poi tornare ad abbracciarci tutti insieme.
Cari mamma e papà, ho 4 anni e sono arrabbiato. Vorrei non dovermi spostare da una casa all’altra in continuazione e poter dormire con voi nel lettone come facevamo prima. Vorrei non svegliarmi nel cuore della notte e chiamare papà senza che mi possa rispondere e vorrei poter abbracciare la mamma quando esco da scuola ogni giorno. Non voglio dover andare via dal papà quando stiamo giocando e non voglio lasciare la mamma quando sono stanco.
Non mi piace vivere così.
Cari mamma e papà ho 7 anni. Nella mia classe ci sono tanti bambini che hanno la mamma e il papà in due case diverse. Non mi sento speciale, mi sento solo triste e alle volte mi sento un peso. Tu, mamma, ti arrabbi se sto con te nel giorno in cui dovrei andare da papà, ma papà non può. E alle volte invece sento te, papà, che vorresti andare a sciare ma poi dici: ma devo stare con mio figlio. Vorrei non dover scegliere la domenica se stare dal papà o dalla mamma. Vorrei che foste voi a decidere perché per me è troppo difficile scegliere. Io voglio bene ad entrambi.
Cari mamma e papà ho 14 anni. Vi siete separati da tanto ma ancora vi sento parlare male l’uno dell’altra. A volte papà mi dice che sono come te, mamma, e ho capito che lo dice con un tono dispregiativo. Altre volte mamma mi dice che tu sei un egoista perché non rispetti gli impegni presi. Ma io lo so, papà, che tu se non vieni è perché hai un motivo valido, lo so che mi vuoi bene e che per te sono importante. Quando siamo insieme parliamo, stiamo insieme, ti dedichi a me.
Io lo so, mamma, che tu sei una donna forte e in gamba, che alle volte quando non mi vedi, quando sei incentrata su di te, non lo fai perché non mi vuoi bene, lo fai perché pensi di darmi un buon esempio prendendoti cura di te. Ed è vero mamma, in parte è così. Quando papà mi dice che sono come te, io non la prendo male, perché per me è un complimento.
Non sono più una bambina, ma mi domando come possano due persone amarsi tanto e poi farsi così del male per tanto tempo? Perché non la smettete? Farete così anche con me se non farò quello che volete voi?
Cari mamma e papà, ho 20 anni. Vi ringrazio per essere stati la mia mamma e il mio papà. Per aver dato ciò che siete riusciti a dare, perchè sono fiera di me stessa e questo è anche merito vostro. Ora sono in terapia per comprendere quali colpe ho avuto nella vostra storia. Spesso mi sono sentita usata per ferire l’altro, mi sono sentita di peso nelle vostre nuove vite. Devo costruirmi un modello d’amore che sia solo mio. Ho tanto lavoro da fare, tante domande a cui dare risposta, ma non sono più arrabbiata con voi. So che mi amate a modo vostro e che ora l’indifferenza tra voi ha concesso la pace. Gioirò il giorno in cui vi riconoscerete  nuovamente e saprete vedere la luce che c’è in ognuno di voi, la stessa luce che incontrandosi mi ha permesso di venire al mondo. Vi amo nonostante tutto e vi sono grata. 

N.B. Questo articolo si riferisce a casi di separazione che escludono violenze domestiche, psicologiche e fisiche. Esclude situazioni limite, siano esse dettate da forte conflittualità o da dipendenze di vario genere, dove la sola legge può intervenire per la salvaguardia della prole e degli stessi genitori.

IL DOLORE INVISIBILE DEL LUTTO PERINATALE

Esistono dolori così profondi che risultano invisibili. Delle lacerazioni così intime che se non accarezzate, cullate, ascoltate, possono portare ad una morte silenziosa. Il dolore consuma. Alle volte lascia uno straccio umido a terra e spera che qualcuno lo possa raccogliere. Le lacrime versate sono così tante che il corpo si asciuga. Il cuore spezzato in mille piccoli pezzi non sa se battere più forte per tentare di restare in vita o lentamente per conservare energia sufficiente per battere ancora a lungo. È un dolore sordo ma acuto, lancinante. Guaisce come un cane abbandonato, ma la voce resta muta all’interno di noi. Il lutto perinatale che tantissime donne hanno subito e subiscono è un qualcosa di illogico. Nella naturalità del ciclo vitale, la morte arriva dopo aver vissuto a lungo e i genitori muoiono prima dei figli. Qui il processo si inverte e ci si ritrova a dover affrontare l’innaturalità. La morte di un figlio è una sofferenza talmente lancinante che ti lascia solo.

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Nessuno può comprendere ciò che stai vivendo: le sensazioni di perdita, le emozioni di rabbia, di ingiustizia che stai attraversando. La convinzione profonda che nemmeno il papà del bambino stia vivendo la medesima sfida, ci porta ad auto-isolarci e ad isolare l’altro.
Non è semplice avvicinarsi a chi sta soffrendo così tanto. Le parole non sono mai abbastanza. Il contatto a volte viene rifiutato. La paura di mostrare tenerezza verso il dolore e che questa venga vista come pena, porta spesso all’allontanamento. Così la madre si isola, il padre viene escluso, gli amici si allontanano e la sensazione di vuoto si allarga. Il baratro diventa profondissimo e tu sprofondi dentro. Vorresti morire, spegnerti, lasciarti andare. Lotti con il tuo corpo che conserva l’istinto di sopravvivenza. Lotti con la convinzione che resterai per sempre infelice. Il corpo si irrigidisce, il dolore diventa anche fisico. Ti guardi allo specchio e non sai più chi sei. Vedi una persona che non sei tu, ma che sai ti accompagnerà da ora in poi. Non ricordi l’ultima volta che hai respirato, o forse sì, è l’ultima volta che hai visto tuo figlio. Nell’ecografia o mentre dormiva nel suo lettino, all’interno di un’incubatrice o sul monitor dell’ospedale. Dopo non hai respirato più. Lui non c’è più e una parte di te si è seppellita insieme a lui.

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Lo hai sognato, immaginato, amato, sentito, visto, portato, nutrito. E poi non c’era più. Anche il tuo compagno lo ha sognato, immaginato, amato, sentito e visto. Lo ha portato con te prendendosi cura di voi, lo ha nutrito nutrendo te. Anche lui ha perso tanto. Anche lui vive l’ingiustizia. Si era visto padre, sognato situazioni, vissuto emozioni. Lo ha immaginato al mare, la sua prima volta sulla sabbia e l’acqua fredda; quando gli avrebbe insegnato ad andare in bicicletta o lo avrebbe guardato dormire beato pensando che fosse la cosa più bella che avesse mai visto. Avete perso insieme la partita più grande della vostra vita, state vicini. Non vi perdete anche voi. E non illudetevi. Non ascoltate i consigli maldestri di chi per consolarvi vi dice di farne un altro che poi passa. Non passa. Non passa mai. E se non elaborate questo dolore, se non lo rendete più dolce, più sopportabile, vi lascerà a terra o peggio ancora, lo trasporterete in modi diversi sul figlio o la figlia che arriveranno dopo la sua morte.
Abbiate cura di voi e sappiate che non siete soli.

CiaoLapo Onlus è un organizzazione che si occupa di lutto perinatale e di accompagnamento e sostegno psicologico a chi affronta la dolorosa esperienza della morte del proprio bambino in gravidanza e nei primi mesi di vita. Sicuramente ci saranno altre organizzazioni di sostegno al lutto perinatale, io conosco loro, per questo mi sento di pubblicarne il nome.

Potrebbero esistere anche gruppi di autosostegno gestiti ed organizzati da chi ha subito questa perdita. Fate una ricerca nella vostra zona. Ci sono molte più persone di quante crediamo all’interno di questo burrone.

Per concludere vi lascio una riflessione personale che per me è stata di grande aiuto, ciò che mi ha permesso di andare avanti: partorire o far continuare a vivere la mia bambina, anche se in un modo diverso. Questo mi ha salvata. Nel mio caso mia figlia è nata con un progetto di un centro polifunzionale per il bambino e la famiglia chiamato Il Mondo di Anya 💚.
Ci sono milioni di modi per far nascere e vivere un bambino. Scegliete la vostra strada. In qualche modo così ristabilirete i posti a tavola al pranzo di Natale in famiglia.
Un abbraccio a tutti voi!
Manuela

Crescere Genitori

Quando si diventa genitori la propria vita cambia completamente, subisce uno stravolgimento emotivo, fisico, psichico, in termini di tempo, di priorità, di sentire, di essere. Un essere vivente dipende da noi, ci sentiamo investiti di responsabilità e non sempre ci sentiamo adeguati. Si leggono libri, si frequentano corsi pre-parto, si accettano consigli da parenti e amici che “ci sono già passati”, per tentare di rimanere in piedi, di sentirsi in grado, di farsi amare dal proprio cucciolo. Ci sono guru o presunti tali che vendono formule magiche, libretti di istruzioni, come se tutti i bambini e i genitori fossero uguali, come se noi non potessimo compiere scelte adeguate seguendo il nostro istinto. Non sono mai stata fan di chi promette miracolose soluzioni uguali per tutti, credo che ogni genitore nasca tantissime volte dal momento in cui viene al mondo un figlio. Nulla è statico. Come nostro figlio o nostra figlia crescono, così anche noi esploriamo il nostro nuovo ruolo, lo abitiamo, ce ne innamoriamo, a volte vorremmo uscirne fuori, altre volte ci usciamo davvero per poi rientrare dalla porta sul retro con una prospettiva tutta nuova, che ci porta a ri-nascere ancora. Per questo non solo credo, ma sono certa, che non esistano corsi, percorsi, modelli, metodi o quant’altro che offrano un’unica via risolutiva per tutti, che funzionino davvero e sapete perchè? Semplicemente perchè non possono prevedere ciò che ancora non è stato vissuto, perchè ogni essere umano è un mondo in evoluzione e deve affidarsi al proprio sentire, alle percezioni, all’amore genitoriale che lo guida sempre, se viene ascoltato.

Esistono corsi formativi esperienziali davvero belli e ricchi di contenuti, dove il conduttore porta nuovi punti di vista, diverse porte di servizio che non avevamo ancora scoperto. Corsi di gruppo, in cui si entra in contatto con altri genitori che vivono i nostri stessi stati d’animo, le difficoltà, le paure, i successi e nascono splendidi confronti. Si studiano possibilità, si verificano ipotesi lavorando sul “campo”, si sperimentano nuove visioni. Ma non ci sono soluzioni immediate, senza fatica, calate dal genio della lampada che tutto risolve al posto mio. Fare il genitore implica lo sporcarsi le mani, l’impastare la propria vita, i vissuti, l’infanzia, i traumi subiti e rivedere tutto quanto per comprendere dinamiche disfunzionali che vengono attuate con i nostri figli e che ci allontanano da loro. E’ fondamentale operare su se stessi, guardare in faccia i propri fantasmi, ammettere le proprie difficoltà. Non si può pretendere di lasciare in mano ad uno sconosciuto il rapporto più importante della nostra vita, credendo che possa risolverlo per noi.

Commetteremmo un terribile errore. L’amore implica impegno, costanza, cura. Avere cura. Le cure riservate ad un neonato però non possono essere le stesse di un bambino di 4 anni o di un adolescente di 14. Ci saranno cure diverse per ogni momento della sua crescita, ma non dimenticarti, che stai crescendo anche tu. Imparerai a conoscere tuo figlio un passo alla volta. Comprenderai ciò che ama e ciò che detesta, ciò che lo fa sentire triste o felice; il suo sguardo ti comunicherà il suo stato d’animo senza necessità di parole, il suo corpo ti mostrerà i segnali di malessere che saprai decifrare a menadito. Saprai dove ha una voglia, qual è il suo sorriso imbarazzato e cosa fa quando è stanco. Non smettere di osservarlo, perchè anche alcune di queste cose cambieranno. Inizierà a camuffare la tristezza con un sorriso, giocherà ad indossare maschere inconsce e tu potresti non accorgerti di tutto ciò. Lo hai fatto anche tu con i tuoi genitori, sono tappe fondamentali per la creazione della propria identità ed il distacco dalle aspettative. Non smettere di amarlo e non credere che ti ami di meno. Cresci con lui. Adatta le tue parole, calibra la tua corda tesa, stai in silenzio, ma porgi un orecchio. Ricordati di te bambino/a e poi ragazzo/a, le tue inquietudini, il tuo caos. Condividilo magari, assaporalo e prova a ricordare come hai messo ordine. Ti servirà ora, per sentirti un genitore adeguato, per rimettere ordine nel caos di insicurezza in cui magari piombi ogni tanto. Abbi fiducia in tuo figlio/a e in te.

E dunque, quali sono le soluzioni per “crescere genitori”?

Porsi domande, darsi risposte, formulare ipotesi, verificarle, confrontarsi, ritornare indietro, mettersi in discussione, cambiare le risposte e sentire la nascita di nuove domande. Tutto questo, fino alla fine dei vostri giorni.

Il Troppo Stroppia?

Donare è una delle massime espressioni d’amore. Significa “dare con assoluta spontaneità, liberalità, disinteresse” , si utilizza anche per significare “far trapiantare un proprio organo ad un’altra persona”. C’è qualcosa di più prezioso e solenne?
E’ Natale e il dono rappresenta il gesto d’affetto che consacra l’unione in questo determinato giorno. Molti considerano il Natale come Nascita, alla quale si porta in dono qualcosa per dare il benvenuto alla nuova vita. Con il tempo il dono a Natale è diventato più consumistico che di valore effettivo/affettivo. Tant’è che si offre un dono spesso senza intenzione, senza trasporto, senza averlo scelto con cura, ma per il solo senso del dovere.

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La riflessione che voglio porre in alto però è questa: il troppo, stroppia? Dare giusto valore alle cose, apprezzare ciò che si ha, trattare con cura, gioire delle cose più semplici si confanno al riempimento di un baule già traboccante? Offrendo 10 regali, quanti se ne apprezzano sul serio? Quanti verranno abbandonati o dimenticati nell’arco di qualche giorno? Quanti verranno trattati con la giusta cura? Siamo nell’epoca smart, dove tutto è a portata di click e dove il low cost ha portato il vantaggio di essere accessibile ai più, ma lo svantaggio del non essere più merce rara e dunque preziosa. I genitori, spesso super impegnati con il lavoro, possono comprare ai figli quasi tutto. L’asticella del desiderio-soddisfazione dello stesso= felicità viene alzata sempre di più e nei primi 10-12 anni(ad essere ottimisti)del bambino, il genitore raggiunge il suo livello massimo, ma a quel punto il figlio lo avrà alzato ulteriormente e inizia il calvario di entrambi. Il genitore si lamenterà di avere un figlio che non è mai contento e il figlio penserà di aver perso l’amore del genitore perchè non soddisfa più i suoi desideri.
E la cosa triste è che entrambi avranno in un qualche modo ragione. Il figlio sarà davvero eternamente insoddisfatto, vorrà sempre di più, non apprezzerà ciò che possiede e si ritroverà ad essere infelice. Il genitore avendo misurato l’amore verso il figlio attraverso doni materiali, penserà di non essere in grado di amare. Quante volte capita ai genitori di sentirsi in colpa verso i figli? Di sentirsi responsabili della loro infelicità? Quante volte si pensa che senza quel determinato paio di scarpe ne faremo un reietto confinato in un ghetto? 

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In questa società che punta a monetizzare qualsiasi cosa, anche i sentimenti, dobbiamo resistere alla tentazione dell’equazione proposta dalle pubblicità “compralo e sarai felice”, perchè si tratta di mera illusione, di falsità. La felicità a cui aspirano i venditori è effimera, superficiale, volatile. E’ invece un sentire molto più alto e profondo quello a cui punta lo spirito umano, non può essere acquistato.
Domandiamoci dunque quando stiamo donando davvero e quando invece tentiamo di riempire un vuoto.Con  oggetti, ma anche emozioni.

Chiediamoci quando è TROPPO. Esso, come il suo contrario, è ALTAMENTE PERICOLOSO. Ci spinge nell’esatta posizione opposta a ciò che vorremmo ottenere. Puntiamo alla felicità, ma donando troppo cadremo nell’insoddisfazione.

Parlo di cose materiali, ma anche d’altro, per esempio le troppe attenzioni (si spinge l’altro a credere di essere l’unico per noi, ad essere dipendente da noi) o il troppo tempo (non si lascia spazio alla noia, al tempo per se stessi, prezioso per comprendersi e conoscersi). Quando si ha troppo, si tende a darlo per scontato, l’interesse cala e si chiede di più. Ma come si suol dire “non c’è mai limite al peggio”, non c’è limite nemmeno al meglio (nell’immaginario umano). Per questo, soprattutto i genitori, devono porsi dubbi e domande sul donare troppo. La nostra personale definizione di FELICITA’ e di BISOGNO sono la base da cui partire. Che cos’è un Bisogno? Che cos’è, per me, la felicità? Conosco i miei bisogni? Porre l’attenzione sugli attimi di felicità che viviamo, goderne appieno e comprendere da cosa nascono. Porre la stessa rigorosa attenzione sui nostri bisogni, comprendere da dove nascono, prendercene cura. Quando abbiamo riflettuto su questo, possiamo tentare di farlo per e con i nostri figli (se l’età ce lo consente), altrimenti sarebbe bene rimembrare il nostro io bambino e sentire i suoi bisogni e il suo concetto di felicità. Vi stupirete dell’effetto! I bambini desiderano molto meno di ciò che pensiamo. Sono davvero felici con quel poco che in realtà racchiude il tutto.

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Stiamo costruendo un mondo di insoddisfatti per il semplice fatto che ci hanno insegnato a misurare il nostro amore in oggetti, tempo, avventure strabilianti volte a far rimanere stupefatto il destinatario. Siamo davvero felici solo per eventi eccezionali? Siamo così tanto infelici della nostra quotidianità? E’ più importante dunque cercare qualcosa di stupefacente nella quotidianità o creare artificialmente dei motivi per essere felici? Vi è mai capitato di chiedere ad un bambino quando si è sentito davvero felice? Sono storie di “ordinaria banalità” APPARENTEMENTE. La straordinarietà sta proprio lì. Facciamoci contagiare.



Il silenzio degli innocenti

C’è il Covid 19. Una pandemia mondiale. Un qualcosa di inspiegabile agli occhi della scienza e dell’umanità intera. Nessuna certezza nè sulle cause, nè sulla cura, nè sulle discriminanti per cui colpisce in modo serio e dirompente su un corpo e non su un altro. Ci sono state date delle misure di prevenzione del contagio che prevedono il distanziamento sociale (e famigliare), indossare la mascherina, utilizzare il gel igienizzante spesso, niente abbracci nè strette di mano. Per un tempo molto lungo i bambini non sono andati a scuola, i parchi giochi erano chiusi. Le vacanze hanno donato un barlume di speranza, ma l’autunno ha riportato tutti nella paura, nello sconforto e nella preoccupazione. C’è chi ha smesso di vivere prima ancora di morire. Ma aldilà di come una la pensi in termini prettamente personali, che sono tarati su esperienze di vita, cultura, idee, credenze, ambiente in cui si vive, ecc… c’è un dato su cui sicuramente siamo tutti d’accordo: questa vicenda ci sta toccando tutti dal punto di vista psicologico. Chi per un motivo, chi per un altro, tutti, in qualche modo, siamo influenzati da questa situazione.

Solo che gli adulti urlano, imprecano, discutono, si informano, hanno un pensiero consapevole che li porta a spiegarsi, a correggersi, a sopportare e contestualizzare certe esperienze, sentimenti, emozioni. Ci sono delle persone però che non hanno vissuto abbastanza a lungo ancora, da cercare informazioni, trovare spiegazioni, crearsi una propria opinione personale su un tema di tale portata, perciò si affidano alle nostre emozioni, sensazioni ed esperienze; appoggiano la loro conoscenza sulla nostra. Ci sono persone, che chiamano bambini, che non urlano, spesso non piangono, non dichiarano, ma comunque sentono e provano tutte le emozioni che sentiamo e proviamo noi. Vedo bambini arrabbiati, che distruggono, che non riescono ad interagire in modo sano con gli altri, troppo ribelli o troppo silenti; bambini fragili, aggressivi, poco inclini a parole gentili verso l’altro. Non erano così prima. Non nutrivano questi sentimenti. C’erano, erano presenti come è normale che sia, ma non in questa quantità nè con questa foga. I bambini non comunicano direttamente, forse anche perchè non lo sanno di preciso nemmeno loro che cos’è questo turbine di sensazioni in cui sono immersi, ma ci stanno urlando, silenziosamente, il loro disagio.

Non mi interessa dare colpe rispetto a questo, l’unico augurio è che le orecchie di chi si occupa di loro, siano ritte e in ascolto, siano pronte e sintonizzate su questa onda, la colgano e, in qualche tenero modo, la rimodellino per restituirla con una forma che possano riconoscere e un messaggio di speranza che faccia da cornice. Perchè i bambini si sa, sono esseri speciali. Si adattano a tutto. Subiscono soprusi, ingiustizie, calunnie, botte, insulti. Loro sopportano, il più delle volte incanalano, spesso proseguono con il sorriso, apparentemente non intaccati. Questa volta non abbassiamo lo sguardo, non diciamogli che va tutto bene. Non va tutto bene. I bambini hanno diritto di sapere perchè la mamma piange, perchè il papà è a casa dal lavoro ed è preoccupato, perchè la scuola chiude e non può invitare i suoi amici a casa, perchè le maestre hanno la mascherina e sono più stanche dell’anno scorso, perchè non possono abbracciare i nonni nonostante in tv ci siano persone a cui è concesso. I bambini capiscono e si adattano, ma non fingiamo che vada bene così. Non fingiamo che sia “normale”. Non fottiamocene solo perchè tanto loro non fanno domande ed eseguono. I bambini di oggi porteranno con sè un disagio sociale enorme nei prossimi anni, una disarmonia psichica sui valori umani, una insicurezza sul giusto e lo sbagliato, l’incertezza come compagna di banco, che purtroppo daranno i loro frutti in età adolescenziale e addirittura adulta. Ci saranno, spero, ricercatori che si preoccuperanno di questo disagio, che stileranno statistiche, formuleranno ipotesi, doneranno le loro conoscenze per aiutare a distruggere il rifugio di questo virus: la mente. Per risanare bisogna togliere il marcio.

Ci sarà tanto da fare rispetto a questo. Ma il domani è lontano, mentre l’oggi è ora e siamo noi che possiamo fare la differenza. Noi che abbiamo paura, siamo preoccupati, angosciati, privi di speranze, insicuri, dubbiosi. Noi che arriviamo a casa e parliamo di numeri di contagiati, di casi positivi, di falle del sistema. Che ci alleiamo con il governo o che inveiamo contro .Noi che ci sentiamo impotenti o rivoluzionari. Siamo genitori, insegnanti, psicologi, infermieri, medici. Siamo adulti che si prendono cura dei bambini. Come disse Maria Montessori tanti anni fa, mente e corpo non possono essere scollegati. Ne deriverebbe un “uomo spezzato”. Occupiamoci dunque del silenzio dei bambini. Impariamo ad osservarlo, a sentirlo, a rileggerlo. Offriamo alla loro mente e al loro cuore la possibilità di comprendere i sentimenti e le emozioni che derivano da questo periodo senza condannarle. Troviamo insieme, ognuno con il proprio giusto modo, la soluzione per salvaguardarci in un momento di disagio globale. Ricordiamoci che anche il silenzio è ricco di parole.
Buon Ascolto e Buon Abbraccio

Manuela Griso

” Tutto sua madre”. Lo stampo relazionale e la creazione di una nuova realtà individuale.

La prima relazione che viviamo è quella tra noi e nostra madre.
Nove mesi di scambio vitale e viscerale in cui acquisiamo informazioni genetiche e relazionali.
A volte sono dolori, sofferenze , sono i nodi genealogici, ma anche talenti, predisposizioni, ci viene ‘impresso’ un sistema che condizionerá il resto della nostra vita.
Uno ‘stampo’ relazionale che arriva dalla risposta della madre verso i bisogni del bambino (fame, sete, affetto, senso di protezione e senso del confine) , dalle influenze genetiche che diventano tendenze di indole e naturalmente dall’ imitazione.
Insomma nasciamo con un pacchetto base che prendiamo ma non è veramente nostro, e da questo sviluppiamo le relazioni a seguire, soprattutto quelle di coppia, dove il livello di intimità si approfondisce, le difese calano e le eventuali ferite vengono solleticate.

Dalla conoscenza di questa base possiamo costruire, ricostruire o trasformare , qualcuno dice ‘guarire il sistema’ (genealogico) che , con ogni nuova nascita, cerca di portare Armonia nell’ intera catena familiare.

La relazione con la mamma è lo “stampo base” di tutte le nostre relazioni, anche quella con noi stessi.
La base è sempre l’ Amore, nelle molte variabili in cui viene espresso, chi ti dono la vita compie un atto d’ amore e a volte è tutto quello che può fare, in alcuni casi non può andare oltre.
Alla base chi ti nutre per 9 mesi di sé stessa e ti dona quello che può , niente più di quello che ha , di quello che è, e rischiando la vita (tutt’ oggi il parto espone la donna al rischio della morte e a livello emotivo ad una morte simbolica di un ‘prima’), ti espone alla luce ….Ti Ama immensamente.

Il primo anno, (si ipotizza anzi fino ai 2 anni del bambino) la madre e il figlio hanno un rapporto unico, il figlio ha bisogno unicamente della madre per conoscere il mondo esterno e sè stesso, la figura del padre non è però affatto subordinata. Il sostegno alla Donna e la protezione in una fase così fragile della sua vita in cui si è dovuta moltiplicare e dividere e rinascere come madre arriva principalmente dall’ amore del suo partner, i baci, le carezze, le attenzioni che la madre riceve contribuiscono al benessere di tutti, soprattutto del piccolo; il padre quindi non costruisce ancora una relazione diretta ma la crea in modo indiretto prendendosi cura della madre.

Finita la fase simbiotica (che può durare appunto da qualche mese fino ai due anni) la madre accompagna (dovrebbe accompagnare) il figlio verso il padre e ne agevola la relazione.

Questo passaggio alcune donne lo dimenticano, per paura di perdere il figlio e l’ esclusività della relazione, il padre spesso si sente escluso e già un iniziale difficoltà può trasformarsi in un abisso. Tanto il sostegno del partner durante la fase simbiotica madre-bambino è di grande importanza per una sana vita familiare, quanto lo è l’ accompagnamento verso il padre , verso la relazione con il mondo; il papà porterà il bambino a conoscere il mondo fuori, fuori dal grembo materno (es. lavoro, denaro). Il modo in cui questo movimento avviene anche contribuisce a delineare il nostro ‘stampo base’ di relazione.

Con la pubertà e successivamente l’ adolescenza si ha bisogno di costruire un identità disgiunta dal ‘pacchetto base’ , che poi fa ritorno a ‘casa’ con l’ età adulta e, se non c’è una rielaborazione personale, una crescita individuale, replicando in modo pressocchè identico ciò che è stato ricevuto dai genitori.

Ci si stacca per poi tornare ad essere figli, bisogna stare attenti però verso chi. Un partner non può colmare i vuoti dell’infanzia o ‘aggiustare’ ciò che si era rotto, ma l’ amore di un partner può donare il coraggio necessario per potercela fare.

I figli non appartengono ai genitori ma al destino che si compie attraverso di loro per restituire speranza, la speranza dell’ interruzione, dello scioglimento, dell’ apertura , di un rinnovato fiume d’ amore che ricomincia a fluire.
I figli appartengono all’ “albero” che li ha generati e alla terra che ne fa frutto dolce (o eventualmente amaro).

Per essere grandi bisogna tornare piccoli.
Ma piccoli per i grandi giusti, i “nostri” grandi.

Il compito dei figli non è restituire ai genitori o guarirli o redimerli e nemmeno pretendere da loro le scuse per i loro errori ; il figlio restituisce alla Vita e quando restituisce alla vita diventa Madre o Padre, che sia attraverso un altro figlio o creando qualcosa, qualunque cosa che prima non c’era e che ora può contribuire al bene comune.
Donna è colei che in cuore conosce il suo essere Figlia , Amante e Madre.
Uomo è colui che in cuore conosce il suo essere Figlio, Amante e Padre.

Questo processo non una volta sola ma…ogni singolo giorno della vita.

Maria Rosa Iacco

Il ‘giusto posto’ in famiglia, il ‘giusto posto’ nel mondo.

La famiglia è un sistema dinamico, governato da precise regole che si perpetuano nel tempo. Per quante variazioni sociali abbia subìto nel corso del tempo il ‘sistema famiglia’, queste regole continuano a seguire un ordine ben preciso, necessario al mantenimento dell’ equilibrio o, come dirette B. Hellinger ,al fluire dell’ Amore.

Ogni disarmonia all’ interno di un sistema genera dei movimenti di ricerca di quell’ equilibrio perduto. Generalmente i figli sono i “componenti del gioco destinati all’ equilibrio” ( B. Ulsamer ) ; in altre parole i figli manifestano, sono la “spia” accesa di ciò che, nel sistema, richiede attenzione e manutenzione.

Più un genitore risolve, osserva, consapevolizza meglio se stesso, i propri traumi, le difficoltà relazionali e generazionali, meno carico viene lasciato da smaltire al figlio. Più l’ adulto si conosce, si occupa di sè a livello profondo e più il bambino diventa libero di adempiere il proprio unico destino e non quello del padre, della madre, dei nonni, del bisnonno o degli avi passati.

Un bambino può ,più facilmente e gioiosamente, camminare verso la realizzazione di sè stesso quando è al giusto posto, quando cioè non deve sopperire a spazi vuoti, sospesi, non-detti, lutti o distacchi di chi (e in chi) c’è stato prima.

Per esprimere e sprigionare i suoi talenti , quindi, il bambino ha bisogno di un ambiente sereno, sicuro, accogliente, di una guida ed anche di essere al suo ‘giusto posto’ all’ interno del sistema famiglia d’ origine. Genitori e figli non sono sullo stesso livello, ed è importantissimo che non lo siano. I genitori vengono prima, sono ‘sopra’ i figli. I figli seguono, sono ‘sotto’. Sopra e sotto non sono da intedere come valore della persona ma come ordine che permette il fluire. E’ il genitore che dà la direzione e non il contrario, il movimento contrario genera una serie di interruzioni che possono manifestarsi in diversi modi nell’ espressione del proprio posto nel mondo, nel ruolo sociale e relazionale che occuperà da adulto e nella relazione con sè stessi.

Facciamo degli esempi di “regole sistemiche” :

nella famiglia ci sono dei grandi e ci sono dei piccoli.

I grandi danno ed i piccoli ricevono ; la restituzione al grande avviene con l’ adempimento del destino del piccolo, questo e la gratitudine per aver ricevuto la vita, null’ altro è “dovuto” dal figlio al genitore.

I grandi danno la vita, danno ascolto, offrono una guida, rispondono ai bisogni dei piccoli, materiali, emotivi ed animici. Danno anche gran parte del loro bagaglio di convinzioni e condizionamenti, credenze, opinioni e giudizi, per questo bisogna stare molto attenti a cosa si trasmette con parole , opere e pensieri. Essere un adulto, un genitore o un educatore, essere un ‘grande’ significa essere responsabile di ciò che si dà.

I piccoli ricevono dai grandi, la vita, ricevono protezione, ricevono regolamentazioni, limiti e confini necessari ,non solo alla loro sicurezza fisica ma anche alla formazione della personalità e l’ indirizzamento di energie e talenti.

Un altro esempio è questo :

un figlio non sostituisce nessuno, non può prendere il posto di un altro figlio, nè del partner, nè di un genitore, nè di un avo, nè di nessun altro se non a caro, carissimo prezzo, per tutti.

Prezzo che i piccoli sono disposti a pagare se necessario. I figli si sacrificano per i genitori in modi e con mezzi inimmaginabili, assumendo inconsciamente fin da piccolissimi sentimenti e ‘posizioni’ scomode pur di restare vicini al clan, alla tribù, fedeli alla famiglia.

L’ influenza che il sistema familiare ha sui figli non si limita dunque al quotidiano ma anche al bagaglio pregresso dell’ intero albero genealogico che ne segna le tendenze, le doti e le difficoltà.

Parte integrante (direi essenziale) , dunque, del sostegno e dell’ educazione di un bambino o un giovane adulto è il lavoro su sè stessi di chi gli è più vicino.

“Se c’è qualcosa che desideriamo cambiare nel bambino, dovremmo prima esaminarlo bene e vedere se non è qualcosa che faremmo meglio a cambiare in noi stessi. ” (C. G. Jung )

Il bambino è un Maestro di vita in un senso molto pratico, osservare il suo sviluppo giorno dopo giorno può renderci sempre più consapevoli anche di noi stessi e delle dinamiche che ci portiamo dietro da tempo, da generazioni ; la maggior parte delle volte ,quando si tratta di qualcuno che amiamo siamo più disposti a metterci in discussione, a cambiare, ritrovare anche noi adulti il ‘giusto posto’ .

Prima ancora che genitori, educatori, mariti, mogli , prima ancora del nostro ruolo sociale , siamo stati figli. Se sappiamo cogliere i segnali del bambino ,che in modo innocente e puro esprime, possiamo educarci, educandolo, crescere insieme e risolvere fratture di sistema precedenti al suo arrivo. Ripristinare il fluire dell’ Amore che, attraverso l’ ultimo nato ci ri.cor.da l’ importanza della Vita.

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