IL MANTELLO PERBENISTA DEL “PER IL BENE DEI FIGLI”

La separazione dei genitori è ormai un elemento comune a molti bambini. Purtroppo però sono ancora poche le volte in cui padre e madre riescono ad accordarsi e ad affrontare la situazione nel migliore dei modi per “il bene dei figli”.
Ma qual è il bene dei figli? Chi lo stabilisce?
Ogni essere umano è unico ed inimitabile, nella buona e nella cattiva sorte. Questo, è evidente, porta ognuno di noi ad avere dei bisogni diversi gli uni dagli altri. Ciò comporta un contrasto chiaro con i criteri che si reiterano da secoli in tema di separazioni.

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Alcuni miti da sfatare che si verificano ancora troppo spesso:
1.”Il bene dei bambini è stare con la mamma” per quale motivo? Chi stabilisce che un genitore, solo in quanto donna, sia più adatto a prendersi cura di un bambino in tutta la sua complessità? Non sono forse le inclinazioni naturali, la visione del mondo, l’impegno costante, le competenze emotive, a dover illuminare certe decisioni?
2.“Il bene dei bambini è la bi-genitorialità” ma davvero riteniamo che alcuni soggetti, senza sostegno alcuno, possano essere genitori consapevoli di ciò che stanno facendo? Persone violente, con dipendenze di ogni sorta, che non si prendono nemmeno cura di se stesse? E questo indipendentemente dal sesso. Uomo o donna non fa differenza. Ci sono madri che dichiarano apertamente di non aver voluto  i figli, ma poi, pur di apparire buone e socialmente adeguate, si giocano la carta del tribunale contro i padri. Ci sono padri che non conoscono nemmeno le allergie gravi dei figli, ma che si dichiarano padri presenti e attenti ai propri bambini. Non tutti sono in grado di fare i genitori. Non possiamo pensare che basti mettere al mondo una creatura per diventarlo. E obbligare qualcuno a farlo non è una scelta che comporta benefici effettivi, né per i genitori, né tantomeno per i figli.

Che il bene dei figli sia rimanere solo con il papà non l’ho mai sentito dire, forse perché gli uomini sono più umili sotto certi aspetti e non pensano di poter fare tutto loro. Da sempre sono considerati il genitore numero 2, quello non così indispensabile. Spesso le madri si ergono ad esseri superiori, ma indossando il mantello del martire ” lo faccio perché sono capace solo io, mannaggia a te che sei un incapace” o “se non lo faccio io chi lo fa?” Di fatto si mettono da sole nella condizione del monogenitore nonostante siano ancora in coppia. Avvenuta la separazione mantengono il ruolo e l’ex ha due vie: o tentare di costruire un rapporto paritario rispetto ai figli, o mantenere anche lui il suo ruolo da padre assente . Dove stia la verità è spesso molto difficile capirlo,perché le versioni discostano sotto molti aspetti.

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Le storie di oggi sono piene di donne vittime dei propri ex mariti o compagni e tanti sono stati i segnali precedentemente, ma nessuno se n’é voluto occupare. È aberrante e inaccettabile.
Mi domando allo stesso tempo quanti uomini ci siano, vittime emotive di donne che si credono il creatore. Che si arrogano il diritto di scegliere a discapito di un rapporto padre/figli, coprendolo anche con il mantello del “bene per i figli”.
L’unico tassello univoco a tutti è che il bene per i figli sarebbe poter avere dei genitori che li amino, indipendentemente dai rapporti tra loro; che non si facciano la guerra pensando che eliminare l’altro (ritenuto inadeguato) sia “il bene dei figli”.
La manipolazione della realtà a proprio vantaggio, la cecità di fronte a palesi reazioni dei figli che indicano che si sta andando nella direzione sbagliata, magari accompagnati dalla nuova compagna/o, è un modello usuale ai più, durante e dopo la separazione. Non si vedono più, davvero, i propri figli, ma si vede ciò che si vuole vedere. Si pensa che se la situazione fa vivere bene noi, sia certamente così anche per i figli. E mentre loro si arrabattano con strategie di sopravvivenza più o meno evidenti, noi li vogliamo vedere felici, per cui questa sarà la storia che racconteremo a noi stessi e agli altri.

L’altro genitore viene dipinto come assente, immaturo e inadeguato ( padre); poco di buono, pazza ed esagerata (madre). Il risultato sta nel mezzo, dove troviamo figli che non sanno schierarsi, che se lo fanno si sentono colpevoli e che spesso, molto spesso, non vengono creduti. Se uno dei due genitori dice all’altro: “il bambino mi ha detto che… ” si viene subito accusati di essere bugiardi, se non addirittura di alienazione. Ci si ritrova così a dover abbozzare per quieto vivere, a sentirsi dei genitori inadeguati perché non possiamo sostenere il nostro bambino, o a fare la guerra pur di ottenere ciò che riteniamo giusto per i nostri figli.


Come uscire dunque da questo tunnel? Come comprendere quando stiamo realmente vedendo la realtà e quando invece indossiamo lo sguardo del nostro benessere come filtro?
1) Tuo figlio ti dice che dall’altro genitore fa qualcosa che non gli piace fare. Invece di sentirti in colpa o prendere di petto la situazione, senza sapere dove ti porterà, lavora con tuo figlio affinché piano piano possa prendere coraggio e dire al genitore in questione di che cosa avrebbe bisogno. Come fare? Rimandando al bambino che con l’altro genitore può parlare, che sarà pronto ad ascoltarlo, che la sua opinione è importante; oppure provare le strategie del problem solving cercando delle possibili alternative da mettere in atto. Fate una bella lista, con tutte le idee che vi vengono in mente (genitore e figlio), poi rileggetela e spuntate le idee che non sono attuabili. Arriverete a trovare delle soluzioni insieme, mostrando al bambino una strategia efficace di risoluzione dei conflitti, che interiorizzerà nel tempo e potrà far parte del suo bagaglio comunicativo.
2) Vostro figlio vorrebbe stare di più con voi che con l’altro genitore.
Analizzate con calma la situazione. Domandate a vostro figlio che cosa fate (o siete) che lo rende più felice quando siete insieme. Senza accusare l’altro genitore o sminuire le sensazioni del bambino, parlate insieme dei suoi bisogni. Ascoltateli. Provate a rimandare l’emozione che secondo voi provano,  per verificare se avete ben compreso. A questo punto domandatevi quale emozione scaturisce in voi tutto questo. Riguardate i bisogni del bambino e i vostri. Se riuscite, con empatia, provate a spiegare al bambino, perché in quel momento non è possibile soddisfare quel bisogno. Se sapete già che potrà essere soddisfatto, date loro una scadenza. Se vi sentite impotenti, abbracciatelo. Capirà.
3) Temete che l’altro genitore possa mettervi contro i figli.
I figli amano i loro genitori. Indipendentemente da come questi si comportino con loro. Che siano affettuosi e attenti o violenti e assenti, loro li amano comunque. E cercheranno sempre di renderli felici. Anche quando sembra che facciano di tutto per ferirli , in realtà ricoprono il ruolo che gli è stato assegnato. Vogliono dare ragione al genitore, pensando che così sia felice. I bambini vogliono il bene dei loro genitori, alle volte più di quanto i genitori vogliano il bene dei figli.
Quando un genitore parla male dell’altro con i figli, potrebbe ottenere un iniziale rapporto conflittuale tra i due, ma esso si risolverà in tempi brevi se quello che è stato riferito non è la verità. I bambini sono piccoli, non stupidi. Sentono il bene e ne sono affamati.
Si può cadere però anche nel lato opposto. Ovvero… Il genitore dice la verità e il bambino lo prende per bugiardo e non gli crede. Anche in questo caso, il bambino mostra l’amore verso il genitore che secondo lui è più fragile. Per cui si può ottenere come risvolto un maggior attaccamento.
Per evitare tutto questo, è necessario,seppur complesso alle volte, che ogni genitore pensi al proprio rapporto con il figlio, senza intromettersi nelle dinamiche con l’altro. Soltanto così il bambino sarà libero di osservare con i propri occhi, di farsi una sua opinione e di manifestare i suoi stati d’animo senza influenza alcuna. Ci si sente impotenti nel vedere la manipolazione e nel comprendere che è meglio supportare a lato ed eventualmente raccogliere i cocci, senza intervenire a gamba tesa. L’istinto ci porterebbe dall’altra parte, ma il rapporto con l’ex può influenzare la nostra visione delle cose.
4) Domandatevi se foste nei panni di vostro figlio come vi sentireste.
Chiedetevi che cosa sta provando, se corrisponde a come vi sentireste voi. Analizzate i conflitti che pensate stia vivendo e create con lui uno spazio di ascolto. Soltanto voi due. Apritevi a lui. Dedicategli del tempo vero. Dove la vostra attenzione non sia interrotta dal suono del cellulare, dalla televisione o dalle parole di un altro adulto.
5) Non rinnegate il passato.
Avete vissuto con il padre o la madre dei vostri figli per un certo tempo di vita. Avete condiviso gioie e dolori. Vi siete amati e magari anche odiati. Ma da quel rapporto sono nati i vostri figli, che meritano di sapere che i loro genitori si sono amati, che il rapporto è mutato, ma il rispetto resterà sempre. Hanno bisogno di saper e che in qualche modo, una parte di amore resterà per sempre. Altrimenti non crederanno più ai vostri “ti voglio bene”. Penseranno che sarà così finché non faranno qualcosa che vi farà arrabbiare davvero. E da lì, allora, odierete anche loro.
Dobbiamo dare loro l’assoluta certezza che il nostro amore per loro non passerà mai. Dobbiamo essere coerenti. Se passiamo dall’amore all’odio con facilità in rapporti importanti, è come se confermassimo loro che prima o poi li abbandoneremo, esattamente come abbiamo fatto nella relazione con l’altro genitore.

Non ci sono formule magiche per una “separazione serena”. I due termini insieme già suonano come una dicotomia.
Ma lo scopo di tutto questo è ricordarsi che non esiste “IL bene dei figli”; esiste l’idea che ognuno di noi ha rispetto a questo e l’unica legge che davvero dovremmo tenere a mente è quella di continuare a rispettarsi nonostante tutto e ad osservare i nostri figli, senza filtri attivi.
Questa è l’unica base per il vero bene dei figli. Da lì si può partire a costruire tutta la parte gestionale e organizzativa, tenendo presente le esigenze e i bisogni dei bambini, partendo dai loro sguardi. Ricordandosi che fare il genitore è un onore, non un peso. Per cui non siamo eroi se abbiamo un nucleo monogenitoriale o se stiamo con i nostri figli la maggior parte del tempo perché l’altro genitore è impossibilitato da eventi o da volontà. Noi siamo quelli fortunati. Quelli che possono godere di momenti importanti che non torneranno più. Non sentiamoci eroi e nemmeno martiri, vittime di uomini o donne latitanti che non ricoprono il loro ruolo. Sentiamoci grati per poter godere ogni giorno della presenza dei nostri figli, del loro amore e dei loro preziosi insegnamenti.

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Cari mamma e papà,
ho due anni e non capisco
come mai devo stare a volte lontano dal papà e a volte dalla mamma. Voi me lo avete spiegato, ma io non ho capito bene. Vorrei potermi addormentare ogni sera con la favola del papà e il bacio della mamma, vorrei potermi arrabbiare con uno e farmi consolare dall’altro per poi tornare ad abbracciarci tutti insieme.
Cari mamma e papà, ho 4 anni e sono arrabbiato. Vorrei non dovermi spostare da una casa all’altra in continuazione e poter dormire con voi nel lettone come facevamo prima. Vorrei non svegliarmi nel cuore della notte e chiamare papà senza che mi possa rispondere e vorrei poter abbracciare la mamma quando esco da scuola ogni giorno. Non voglio dover andare via dal papà quando stiamo giocando e non voglio lasciare la mamma quando sono stanco.
Non mi piace vivere così.
Cari mamma e papà ho 7 anni. Nella mia classe ci sono tanti bambini che hanno la mamma e il papà in due case diverse. Non mi sento speciale, mi sento solo triste e alle volte mi sento un peso. Tu, mamma, ti arrabbi se sto con te nel giorno in cui dovrei andare da papà, ma papà non può. E alle volte invece sento te, papà, che vorresti andare a sciare ma poi dici: ma devo stare con mio figlio. Vorrei non dover scegliere la domenica se stare dal papà o dalla mamma. Vorrei che foste voi a decidere perché per me è troppo difficile scegliere. Io voglio bene ad entrambi.
Cari mamma e papà ho 14 anni. Vi siete separati da tanto ma ancora vi sento parlare male l’uno dell’altra. A volte papà mi dice che sono come te, mamma, e ho capito che lo dice con un tono dispregiativo. Altre volte mamma mi dice che tu sei un egoista perché non rispetti gli impegni presi. Ma io lo so, papà, che tu se non vieni è perché hai un motivo valido, lo so che mi vuoi bene e che per te sono importante. Quando siamo insieme parliamo, stiamo insieme, ti dedichi a me.
Io lo so, mamma, che tu sei una donna forte e in gamba, che alle volte quando non mi vedi, quando sei incentrata su di te, non lo fai perché non mi vuoi bene, lo fai perché pensi di darmi un buon esempio prendendoti cura di te. Ed è vero mamma, in parte è così. Quando papà mi dice che sono come te, io non la prendo male, perché per me è un complimento.
Non sono più una bambina, ma mi domando come possano due persone amarsi tanto e poi farsi così del male per tanto tempo? Perché non la smettete? Farete così anche con me se non farò quello che volete voi?
Cari mamma e papà, ho 20 anni. Vi ringrazio per essere stati la mia mamma e il mio papà. Per aver dato ciò che siete riusciti a dare, perchè sono fiera di me stessa e questo è anche merito vostro. Ora sono in terapia per comprendere quali colpe ho avuto nella vostra storia. Spesso mi sono sentita usata per ferire l’altro, mi sono sentita di peso nelle vostre nuove vite. Devo costruirmi un modello d’amore che sia solo mio. Ho tanto lavoro da fare, tante domande a cui dare risposta, ma non sono più arrabbiata con voi. So che mi amate a modo vostro e che ora l’indifferenza tra voi ha concesso la pace. Gioirò il giorno in cui vi riconoscerete  nuovamente e saprete vedere la luce che c’è in ognuno di voi, la stessa luce che incontrandosi mi ha permesso di venire al mondo. Vi amo nonostante tutto e vi sono grata. 

N.B. Questo articolo si riferisce a casi di separazione che escludono violenze domestiche, psicologiche e fisiche. Esclude situazioni limite, siano esse dettate da forte conflittualità o da dipendenze di vario genere, dove la sola legge può intervenire per la salvaguardia della prole e degli stessi genitori.

DOP: Disturbo Oppositivo Provocatorio, Denominazione di Origine Protetta

“Con il termine “Disturbi del comportamento” ci riferiamo alla condizione di bambini che mostrano comportamenti aggressivi, difficoltà a regolare le proprie emozioni e scarso rispetto per le regole date dagli insegnanti e dai genitori. Queste caratteristiche devono essere presenti quasi tutti i giorni per almeno 6 mesi e solitamente si presentano sia nell’ambito familiare, sia nell’ambito scolastico”
“Il Disturbo oppositivo Provocatorio si configura come un pattern di umore irritabile e collerico con comportamenti provocatori, polemici, vendicativi e sfidanti”

Dal libro Dop disturbo oppositivo provocatorio cosa fare (e non), guida rapida per insegnanti


Sono sempre di più i bambini che sviluppano disturbi del comportamento fin dai primi anni di vita e sempre più importanti gli interventi che vengono effettuati su e con questi bambini per far sì che possano integrarsi nella società in una modalità di relazione serena ed efficace.
Le domande da porsi sono tante se si osservano i dati. Eccone alcune:
-Come mai questi bambini adottano tali comportamenti?
-La diagnosi è un valore aggiunto per il sostegno del bambino o un’etichetta che permette la rassegnazione senza senso di colpa?
-Cosa si può fare di davvero efficace per sostenere i bambini, le famiglie e gli insegnanti?

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I dubbi e le difficoltà sono davvero molteplici, le strategie possono essere diverse in base all’osservazione del comportamento del bambino, del contesto familiare, dell’attivazione del disturbo e delle modalità di espressione, ma proviamo a vedere quali sono gli aspetti comuni nel disturbo oppositivo provocatorio.


Tipicamente ci sono fasi di sviluppo che mostrano l’opposizione come caratteristica di base e queste hanno la funzione di aiutare il bambino nella costruzione della propria identità. I bambini che permangono, incastrati, in queste fasi di sviluppo sono bambini sofferenti.

Bambini che portano un peso più grande di loro, di cui non comprendono l’entità e che non gli permette di regolare l’emotività. Tutto è amplificato: il peso emotivo, le reazioni del bambino e la visione delle reazioni altrui.
Questa distorsione porta il bambino all’interno di un loop da cui non riesce ad uscire, anche perché spesso si manifesta in età talmente precoce, da non aver ancora sviluppato del tutto la corteccia  prefrontale , colei che ci permette di revisionare la realtà, di regolare le reazioni emotive e di comprendere gli aspetti sociali.  Spetta all’adulto dunque comprendere, analizzare e trovare una modalità di relazione e di gestione del bambino con DOP.

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La diagnosi dovrebbe essere un indizio per l’insegnante, che lo spinge in una direzione piuttosto che nell’altra, rispetto al comportamento da tenere a propria volta con il bambino; uno strumento utile per la comprensione di alcuni atteggiamenti del bambino. Molto spesso, invece, viene interpretata come un’etichetta sull’intera identità del bambino, che come tale va a bloccare ogni tentativo di “recupero”, di relazione efficace, determinando una sorta di rassegnazione che elude però il senso di colpa, perché “non sono io che ho fallito, è il bambino che è sbagliato”.
Se si parte dal presupposto che un bambino con Disturbi comportamentali sia irrecuperabile, non ci poniamo nella direzione giusta per poter anche solo fare un passo su una strada non ancora vagliata. Rimaniamo incastrati davanti al nostro muro, senza vedere che accanto c’è una porta. Bisogna trovare la chiave, certo, ma la porta c’è.
Se partiamo invece dalla base e cioè dal motivo per cui questi bambini si comportano così, credendo fortemente che nessun bambino NASCE così, nessun bambino nasce “cattivo”, nessun bambino È il comportamento che sta attuando, iniziamo con il piede giusto.
Le motivazioni possono essere molteplici e svariate, ma la piattaforma su cui sono costruite, è la medesima: la sofferenza.
Il bambino con DOP pensa di essere sbagliato, di vivere in mezzo a persone che non lo apprezzano; ha bisogno di essere visto, riconosciuto, apprezzato.  È necessario fargli notare i comportamenti positivi che attua, in modo da rinforzare l’autostima e la risposta “adeguata” in una determinata situazione.


La regolazione dell’emotività è l’aspetto più complesso nei bambini con DOP, perché l’onda emotiva li travolge in modo così totalizzante, da non mostrargli altro.

Circondato dalla sua emozione, il bambino non vede l’altro e non è in grado di percepirne la reazione emotiva. È necessario mettere a sua disposizione degli strumenti che gli consentano di apprendere una modalità di gestione dell’emozione soprattutto nella fase acuta, in modo da non inficiare le relazioni e non accrescere la sua sensazione di inadeguatezza.
Possono esserci una moltitudine di stratagemmi da attuare, sulla base dell’osservazione del singolo bambino, che accompagna ogni giorno l’adulto verso la conoscenza dei suoi schemi di comportamento. Ci sarà il bambino che necessiterà di un approccio pratico- fisico per incanalare l’esplosione emotiva, o il bambino con cui bisognerà trovare una modalità diversa, magari grafico-pittorica, per dar voce a ciò che sta provando. L’osservazione e la capacità di ascolto profondo, anche del non verbale, saranno le armi vincenti per la gestione del comportamento oppositivo provocatorio.

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DOP, Denominazione di Origine Protetta: indica un prodotto di alta qualità, la cui zona di origine e le tradizioni utilizzate tutt’ora per crearlo lo rendono così peculiare da doverlo salvaguardare da contraffazioni.
Iniziamo a pensare al bambino con DOP, con questa determinazione della sigla e cambiando la nostra visione, pensandolo come un essere unico e da salvaguardare, saremo in grado di amarlo, sostenerlo e potenziare i suoi talenti, senza definirlo per le sole difficoltà.

Vedere il dolore invisibile: eutanasia e consapevolezza sociale

23 anni e sentire già il peso della vita. 23 anni e desiderare di morire per smettere di soffrire.
Una sofferenza così profonda, da non poterne toccare il fondo. Scorgerla infinita e credere che non ci sia più una via di uscita verso la Vita.


Shanti De Corte, belga, ha chiesto e ottenuto l’eutanasia per grave depressione e stress post traumatico. La ragazza all’età di 17 anni era sopravvissuta ad un attacco terroristico a Bruxelles. La sua vita da allora non fu più la stessa. La paura invase completamente la sua esistenza. Non riusciva ad uscire di casa, ad andare a scuola, a vedere amici. L’unica risposta che parve efficace fu la farmacovigilanza, con ben 11 antidepressivi giornalieri, per tenere sotto controllo tutti i sintomi.

Shanti De Corte (facebook)


Non cadiamo nel giudizio di una sua richiesta, né rispetto al suo sentire. Chiediamoci che cosa la società ha sbagliato verso questa ragazza. Che cosa si poteva fare per lei all’epoca dei fatti? Che cosa durante tutti questi anni? Abbiamo veramente fatto tutto il possibile per sostenerla? E non mi riferisco ai suoi genitori, che solo loro possono sapere il dolore che provano e che hanno provato. Parlo della società intera e del sistema che ha permesso ad una ragazza di 23 anni, di credere che non ci fosse più nulla da fare per lei. Di pensare che il dolore fosse più grande della gioia. Di credere che il male vincesse sul bene. Perché questa responsabilità va presa.
Negli anni ci sono state diverse riflessioni sull’eutanasia. Da un punto di vista religioso, sociale, culturale. Ci si domanda quando sia giusto concederla e quando no. Ma anche questo sarebbe un giudizio sulla scelta finale, senza invece porre l’attenzione al prima. Generalmente viene concessa per gravi difficoltà fisiche, dolore cronico e non alleviabile. È forse stata la prima volta ad essere stata concessa per il dolore invisibile: quello dell’anima. È forse questo che ci ha colpito maggiormente. Era un dolore non visibile, non palpabile, non misurabile, non udibile, che non rientrava in qualche tabella medica, eppure è stato preso in considerazione. La riflessione necessaria riguarda il fatto che per la prima volta, il dolore dell’anima ha avuto un importanza storica rilevante, al pari del dolore fisico. Questo però ci concede da un lato di mettere un punto importante sul fatto che la mente è fondamentale tanto quanto il fisico e pare una banalità, ma non lo è; dall’altro di iniziare a pensare a quali modi ci possono essere per far sì che non accada più. L’educazione è parte integrante di questa responsabilità. Il dolore invisibile va reso visibile, va visto e sentito. Bisogna educare i bambini, i ragazzi a rimanere sintonizzati sugli occhi degli altri, connessi al sentire profondo, affinché il dolore non passi inosservato.


Abbiamo subito una sconfitta importante con questa sentenza. Una ragazza è morta e mentre il progresso scientifico avanza continuamente e cerca e trova nuovi metodi, nuove sperimentazioni per le malattie più rare, più complesse e menomanti, al fine di evitare il più possibile un dolore così insopportabile da portare al desiderio della morte, meno si sente il movimento che sostiene il dolore psichico. Non possiamo più permettercelo. In un mondo di attentati; pandemie con restrizioni che minano gravemente la vita sociale; crolli economici e finanziari mondiali che portano al collasso moltissime aziende e conseguenti famiglie; il dolore dell’anima, quello profondo e invisibile, può portare a suicidi, a fine vita assistiti, a trovare comunque nella morte, l’unico sollievo possibile.

Non chiamatela depressione con un certo grado di disprezzo e di svalutazione. Non sminuite le situazioni, i drammi, il dolore profondo. Aprite gli occhi negli occhi dell’altro. Osservate, scrutate, accarezzate. Dobbiamo cercare e trovare nuove strade, continuare a tentare, a provare, a tastare territori inesplorati, per poter dare delle risposte più efficaci a situazioni drammatiche che segnano inevitabilmente la vita di chi le subisce, ma non può e non deve far arrivare una persona al punto tale da vedere nella morte l’unica fine possibile al dolore.


Il suo nome significa “pace”, che possa averla trovata in quella morte che le è sembrata rifugio.  

La solitudine dei bambini

“Quando mi vedi solo, che gioco con un rametto, un filo d’erba o osservo le nuvole, non ti crucciare, non sono solo, sono con me stesso. Un me divertente, riflessivo, con cui mi piace stare. Non sono solo. Sto da solo. Non sono triste per questo, sono io che lo ricerco. E’ uno stare con me stesso che mi permette di ascoltarmi, di esplorare il mondo, di analizzare, sentire… “

Troppo spesso l’adulto presume che lo stare in disparte di un bambino all’interno di un gruppo sia indice di un problema. Difficoltà sociale od emotiva, ma in ogni caso, sintomo di un qualcosa che non va . In realtà, l’accezione negativa alla solitudine la diamo noi adulti e spesso in modo frettoloso parliamo di “asocialità”. Gli adulti spesso non sono in grado di stare con sè stessi e per questo hanno BISOGNO degli altri. Da questo paradigma culturale nascono le convinzioni che lo stare da soli, a prescindere dal fatto che sia o meno una libera scelta, non sia mai sinonimo di Ben-Essere, ma sempre di Mal-Essere.

Dice Wikipedia: “La solitudine è una condizione e un sentimento umano nei quali l’individuo si isola per scelta propria (se di indole solitaria), per vicende personali e accidentali di vita, o perché isolato o ostracizzato dagli altri esseri umani, generando un rapporto (non sempre) privilegiato con se stesso.” 

Riflettendo…. Se pensiamo a quando da ragazzi si instauravano quei legami di amicizia molto forti, in cui si viveva quasi in simbiosi, quando finivano o quando non ci si poteva vedere, come ci sentivamo? Persi. Disconnessi da noi stessi. Questo perchè si creava una sorta di DIPENDENZA AFFETTIVA, tipica nelle storie d’amore, dove il bisogno dell’altro genera una sofferenza tale da paragonarla alla disintossicazione. Pensate invece ora a quanto sia importante drogarsi di se stessi. Conoscersi a fondo, sperimentarsi, sentirsi. Cercare l’altro non per bisogno, ma per scelta, quanto deve essere liberatorio? Per noi e per l’altro. Alcuni bambini sono così naturalmente, senza interferenza alcuna. E cosa fa l’adulto? Lo crede sbagliato, lo etichetta, cerca di deviarlo per farlo entrare in relazione costante con i pari, pensando di aiutare il proprio bambino o alunno in realtà si crea un danno enorme.

Sicuramente è necessario partire dall’osservazione del bambino o della bambina. Quando si isola? Per quanto tempo? Quali emozioni trasmette il suo corpo? Com’è il suo viso? Se ci avviciniamo cosa prova? E’ assente o presente? Partecipa ad attività di gruppo? Come si relaziona con gli altri? Quali emozione esprime con maggiore frequenza? Piange? Ride? Gioca o sta fermo? Osserva gli altri o sta nel suo mondo interiore? Fantastica o resta su un piano reale? Gli altri lo cercano? Con l’adulto che relazione sviluppa? Queste e moltissime altre domande possono fare da sfondo all’occhio che osserva e dovranno essere rielaborate all’interno del contesto ambientale famigliare e scolastico in cui il bambino vive, prima di poter valutare se la solitudine di cui si accerchia sia utile al suo sano sviluppo o stia diventando un impedimento.

L’interesse di cui sono prede certi bambini, risulta essere troppo per garantirne uno sviluppo sereno. Se anni fa la problematica genitoriale più frequente riguardava il fatto che i bambini venissero lasciati a loro stessi, oggi affrontiamo la dinamica opposta: il bambino iper osservato e che se non rispetta la “tabella di marcia” che il genitore ritiene idonea, egli viene snaturato, defraudato della sua identità tramite il senso di colpa e l’inadeguatezza che legge negli occhi dell’adulto.

L’attenzione alla solitudine e allo spazio che ha nella vita dei bambini si è alzata sicuramente e necessariamente negli ultimi due anni. La pandemia da Covid-19 ha impedito i rapporti sociali, la permanenza a scuola, le visite ai famigliari. Ci ha isolati. Questo ha generato una forte pressione psicologica ed una accelerata ancor più importante verso l’equazione solitudine=malessere. Se c’è una cosa però che possiamo aver appreso in questo delicato periodo è anche la capacità di sentirsi vicini pur essendo fisicamente lontani. Questo significa che pur stando isolati, un filo che ci unisce lo abbiamo sempre, se lo desideriamo. Sta qui la grande ricerca della verità. La libera scelta di ognuno di noi e la comprensione nonchè accettazione e fiducia che l’adulto ha , del e nel , bambino che ha messo al mondo. Ogni bambino è competente. Sa quello che è meglio per lui, per il suo sviluppo. Restando con occhio rivelatore, poniamoci in ascolto, depuriamoci dalle equazioni impure e meditiamo sulle intenzioni e le percezioni. La realtà viene filtrata dal nostro vissuto, per cui più siamo liberi da preconcetti, più possiamo sostenere realmente la vita dei nostri bambini.

Nel metodo Montessori il lavoro singolo è necessario alla formazione dell’individuo che in quanto essere unico e irripetibile, ha esigenze del tutto personali che lo guidano alla ricerca dell’attività atta a soddisfare il periodo sensitivo che sta vivendo. L’adulto può avere il ruolo di facilitatore e sostenitore della vita che si sta formando, solo se ripone fiducia nel bambino, se riesce a vederlo senza i suoi filtri, così com’è, nella sua interezza ed unicità, rispettandone la natura, permettendogli di mostrare sia i talenti che le difficoltà, per alimentare gli uni e lavorare sulle altre. E’ dunque comprensibile ora l’importanza del lavorìo individuale, concentrato e personale del bambino, che sta apprendendo le fattezze del mondo, ne sperimenta le leggi, studia le combinazioni e si pone domande a cui, scientificamente, proverà a dare risposta se gliene viene data la possibilità.

immagine de “Il Mondo di Anya”

Pensate dunque se è così fondamentale la solitudine per apprendere ciò che è esterno a noi, quanto sia necessaria per sentire ciò che accade DENTRO di noi. Le emozioni, le sensazioni, i sentimenti, le domande, i dubbi, riconoscere i talenti, il proprio corpo e i suoi segnali. Vogliamo dunque noi intrometterci in questo magic moment tra il bambino e se stesso, pensando superficialmente che se non gioca sempre con qualcuno diventi asociale o sviluppi un’incapacità relazionale?

La riflessione nasce dunque spontanea e forse, la solitudine può iniziare ad essere vista anche come una forma di meditazione necessaria all’equilibrio e all’armonia con se stessi.

IL DOLORE INVISIBILE DEL LUTTO PERINATALE

Esistono dolori così profondi che risultano invisibili. Delle lacerazioni così intime che se non accarezzate, cullate, ascoltate, possono portare ad una morte silenziosa. Il dolore consuma. Alle volte lascia uno straccio umido a terra e spera che qualcuno lo possa raccogliere. Le lacrime versate sono così tante che il corpo si asciuga. Il cuore spezzato in mille piccoli pezzi non sa se battere più forte per tentare di restare in vita o lentamente per conservare energia sufficiente per battere ancora a lungo. È un dolore sordo ma acuto, lancinante. Guaisce come un cane abbandonato, ma la voce resta muta all’interno di noi. Il lutto perinatale che tantissime donne hanno subito e subiscono è un qualcosa di illogico. Nella naturalità del ciclo vitale, la morte arriva dopo aver vissuto a lungo e i genitori muoiono prima dei figli. Qui il processo si inverte e ci si ritrova a dover affrontare l’innaturalità. La morte di un figlio è una sofferenza talmente lancinante che ti lascia solo.

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Nessuno può comprendere ciò che stai vivendo: le sensazioni di perdita, le emozioni di rabbia, di ingiustizia che stai attraversando. La convinzione profonda che nemmeno il papà del bambino stia vivendo la medesima sfida, ci porta ad auto-isolarci e ad isolare l’altro.
Non è semplice avvicinarsi a chi sta soffrendo così tanto. Le parole non sono mai abbastanza. Il contatto a volte viene rifiutato. La paura di mostrare tenerezza verso il dolore e che questa venga vista come pena, porta spesso all’allontanamento. Così la madre si isola, il padre viene escluso, gli amici si allontanano e la sensazione di vuoto si allarga. Il baratro diventa profondissimo e tu sprofondi dentro. Vorresti morire, spegnerti, lasciarti andare. Lotti con il tuo corpo che conserva l’istinto di sopravvivenza. Lotti con la convinzione che resterai per sempre infelice. Il corpo si irrigidisce, il dolore diventa anche fisico. Ti guardi allo specchio e non sai più chi sei. Vedi una persona che non sei tu, ma che sai ti accompagnerà da ora in poi. Non ricordi l’ultima volta che hai respirato, o forse sì, è l’ultima volta che hai visto tuo figlio. Nell’ecografia o mentre dormiva nel suo lettino, all’interno di un’incubatrice o sul monitor dell’ospedale. Dopo non hai respirato più. Lui non c’è più e una parte di te si è seppellita insieme a lui.

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Lo hai sognato, immaginato, amato, sentito, visto, portato, nutrito. E poi non c’era più. Anche il tuo compagno lo ha sognato, immaginato, amato, sentito e visto. Lo ha portato con te prendendosi cura di voi, lo ha nutrito nutrendo te. Anche lui ha perso tanto. Anche lui vive l’ingiustizia. Si era visto padre, sognato situazioni, vissuto emozioni. Lo ha immaginato al mare, la sua prima volta sulla sabbia e l’acqua fredda; quando gli avrebbe insegnato ad andare in bicicletta o lo avrebbe guardato dormire beato pensando che fosse la cosa più bella che avesse mai visto. Avete perso insieme la partita più grande della vostra vita, state vicini. Non vi perdete anche voi. E non illudetevi. Non ascoltate i consigli maldestri di chi per consolarvi vi dice di farne un altro che poi passa. Non passa. Non passa mai. E se non elaborate questo dolore, se non lo rendete più dolce, più sopportabile, vi lascerà a terra o peggio ancora, lo trasporterete in modi diversi sul figlio o la figlia che arriveranno dopo la sua morte.
Abbiate cura di voi e sappiate che non siete soli.

CiaoLapo Onlus è un organizzazione che si occupa di lutto perinatale e di accompagnamento e sostegno psicologico a chi affronta la dolorosa esperienza della morte del proprio bambino in gravidanza e nei primi mesi di vita. Sicuramente ci saranno altre organizzazioni di sostegno al lutto perinatale, io conosco loro, per questo mi sento di pubblicarne il nome.

Potrebbero esistere anche gruppi di autosostegno gestiti ed organizzati da chi ha subito questa perdita. Fate una ricerca nella vostra zona. Ci sono molte più persone di quante crediamo all’interno di questo burrone.

Per concludere vi lascio una riflessione personale che per me è stata di grande aiuto, ciò che mi ha permesso di andare avanti: partorire o far continuare a vivere la mia bambina, anche se in un modo diverso. Questo mi ha salvata. Nel mio caso mia figlia è nata con un progetto di un centro polifunzionale per il bambino e la famiglia chiamato Il Mondo di Anya 💚.
Ci sono milioni di modi per far nascere e vivere un bambino. Scegliete la vostra strada. In qualche modo così ristabilirete i posti a tavola al pranzo di Natale in famiglia.
Un abbraccio a tutti voi!
Manuela

Le Donne sono Inferiori, gli Uomini non possono piangere: l’Identità Rubata.

Le differenze di genere fanno parte, culturalmente, di ognuno di noi, ma non solo… biologicamente siamo sicuramente diversi, ma come diverso è qualunque altro individuo rispetto a noi. Sono state instaurate però convenzioni sociali che limitano l’individualità, ci inscatolano in recinti prestabiliti da altri e se si tenta di uscire, si viene tacciati di essere “strani”. Tutto ciò che non è riconosciuto nei parametri stabiliti da chissà chi nel corso della storia viene bandito, additato come “non normale”. Un libro che ho apprezzato moltissimo sull’argomento è “Viola e il Blu” di Matteo Bussola e vi invito a leggerlo con i vostri bambini e nelle scuole, perché dà spazio a domande e riflessioni profonde su ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere. Viola è una bambina a cui piace il Blu, ma già alla sua giovane età, si accorge di come questo sia un problema, o meglio, la punta di un iceberg di “problemi” sull’identità di genere in cui ci vogliono inscatolare. Siccome sei femmina ti deve piacere il rosa, non puoi fare determinati sport, mentre se sei maschio non puoi piangere, non puoi lavorare meno di tua moglie e stare di più con i tuoi figli e figlie , e via via con “piccole” e grandi questioni, a cui il suo papà tenta di dare una risposta o di porre l’attenzione su come queste privazioni e predefinizioni di ciò che dovremmo essere ci fanno sentire. Un libro dalle parole semplici, ma profondissime, un testo da portare nelle case e nelle scuole, affinché si possa sdoganare la vera libertà di essere, indipendentemente dal genere a cui si appartiene.

Riprendendo il concetto iniziale, è certamente vero che a livello biologico siamo diversi e tutti i maschi hanno determinate caratteristiche fisiche e tutte le femmine ne hanno altre. Ci sono studi che riportano come anche i due cervelli siano formati in modo differente. Ma se prendiamo due donne o due uomini o due bambini o due bambine, troveremo comunque delle diversità, pur appartenendo allo stesso genere. Dove sta dunque la difficoltà nel comprendere, consapevolizzare e di conseguenza attuare e passare messaggi di libertà di individualità indipendentemente dal genere di appartenenza? La questione parrebbe semplice, gli studi ci sono, gli psicologi mostrano i loro pareri contrari a queste forme di restrizioni e recriminazioni, ma ancora una grossa fetta di popolazione continua a muoversi in questa direzione convinta che sia quella giusta. Ma osserviamoli i bambini e le bambine.Non facciamoci trascinare da bende invisibili che ci coprono gli occhi e trattengono le emozioni. Mostriamo loro che un uomo può piangere e che in questo modo evidenzia la sua umanità, non la fragilità, che se sta con i suoi figli e figlie non fa il “mammo” e non “aiuta la mamma” perchè quelli sono anche figlie e figli suoi e c’è un termine ben preciso che lo definisce: Papà.

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Ci sono memorie cellulari antichissime che il cervello rettiliano conserva e che supportano le azioni per la sopravvivenza, ma il cervello si è evoluto e ci sono altre parti che lo completano e lo rendono in grado di discernere ciò che sente e portarlo alla luce. Non saremo mai veramente liberi finchè non ci affrancheremo da queste convenzioni sociali che ingabbiano l’individuo e lo incasellano secondo un regime preciso. Le donne sono spesso viste come incapaci o elementi meno produttivi rispetto agli uomini. Le menti ottuse e barbariche continuano a perpetuare questo pensiero anche nei bambini. Ma se li osservate i bambini e le bambine , non ragionano per categorie. Un loro compagno si fa male o ha un momento di scoramento, loro non guardano se è maschio o femmina, si avvicinano, chiedono cosa è successo, si preoccupano sinceramente della persona che è in difficoltà in quel momento. L’Umanità. Tutta. Quella intera. Questo è l’insieme. Esiste un termine che ci comprende tutti ed è questo,UMANITA’, senza distinzioni di sesso, età, razza. Tanti sono i dogmi da abbattere e combattere, tante le limitazioni subite da entrambi i generi senza un reale motivo. Una presa di posizione surreale, ma talmente radicata da continuare a mietere vittime. Quante persone vivono il dramma del sentirsi sbagliate, che non vengono accettate per ciò che desiderano essere e questo “solo” perché non rientrano nelle categorie prestabilite. Genitori che rifiutano i figli e le figlie perché difformi da ciò che la società gli ha fatto credere essere la normalità. Figli e figlie affamati di accettazione, bramosi d’affetto, che ricevono abbandono e insulti per aver tentato di essere se stessi. Si pensa che i genitori amino sempre i propri figli, un’altra regola non scritta della società, considerata come “normalità”.

Che cos’è la normalità? Da cosa è data?

“E’ definita normale una condizione che si ripete in modo regolare e consueto, non eccezionale o casuale o patologico, con riferimento sia al modo di vivere, di agire, o allo stato di salute fisica o psichica di un individuo, sia a manifestazioni del mondo fisico, sia a situazioni (politiche, sociali ecc) più generali.” Treccani.

Dunque se tutti uscissimo per strada nudi per più giorni questa sarebbe considerata normalità e il non poterlo fare è dato solo dal fatto che nessuno lo ha mai sperimentato prima, per più giorni e in più persone. Ma pensate a cosa sarebbe il mondo oggi se nessuno fosse mai uscito dal recinto della “normalità”… Ci saremmo evoluti? Saremmo andati sulla Luna? Ci sarebbero state ribellioni e rivoluzioni, nuove invenzioni? Pensiamo alle donne che non potevano nemmeno pensare di laurearsi, o agli uomini che non potevano decidere di dedicarsi ai propri figli. Suonano come note stonate di un pianoforte non accordato, ma non parliamo poi di molto tempo fa e in certe parti del mondo ancora le cose stanno così, per citare forse piccole ingiustizie se si pensa ad altre atrocità inferte soltanto per il genere a cui si appartiene.

L’essere umano è Uno. Ci sono poi distinzioni di genere, razza, età, colori, ma è SEMPRE definito ESSERE UMANO.

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Riflettendo sugli spunti del libro con le mie bambine, ci si domandava proprio perchè, in lingua italiana, il plurale di un gruppo misto sia sempre definito al maschile. Un’altra convenzione stabilita da chissà quali intenzioni e finita per essere la “normalità”. Ma è davvero così “normale”? E soprattutto, è equo?

Ciò che spero sempre di passare ai bambini è l’idea che esistono pensieri propri che vanno tutelati. Osservare la realtà con pensiero critico e divergente permette di sviluppare innovazione. Non è detto che siccome “si è sempre fatto così” sia la cosa “giusta”. Se in un gruppo di 20 persone parla solo e sempre uno, le decisioni sono in mano a lui ecc, il gruppo non avanzerà più di tanto, perchè le idee rimarranno le stesse e non permettono di evolvere. La forza di un gruppo è invece la moltitudine di pensieri ed esperienze che ogni componente può portare per aiutare e sostenere la crescita del gruppo stesso.

Siamo ciò che siamo, donne o uomini, ma abbiamo il grande immenso compito di riconoscerci in un unico genere, l’Umanità, e trasmetterlo ai nostri bambini. RIBELLIONE significa Ritornare al Bello. Concediamo ai nostri bambini la speranza di un mondo migliore. Siate fautori di questa grande RI-BELLIONE!

Manuela Griso

Il Dolore degli Altri



Non puoi sapere quanto dolore sta provando l’uomo o la donna o il bambino seduti vicino a te. Puoi vedere le loro lacrime, il viso contrito dalla sofferenza, il corpo offeso dal dolore, la disperazione dei famigliari, la speranza abbandonata su una sedia vuota. Puoi osservare e provare a sentire come il tuo corpo risponde a tutto questo. I pensieri che si inseguono nella tua mente alla ricerca delle parole giuste, del gesto perfetto, del dono che può alleviare tutto questo. Mi dispiace, ti capisco, è successo anche a me, sono qui per te, ti sono vicino…. sono queste le parole che pensiamo e pronunciamo più spesso in determinate occasioni. Ci sembrano piene, rotonde, adatte. Formalmente lo sono. Nella sostanza nulla è adatto. Nulla è perfetto. Perché la situazione non muta. Certo, sicuramente messaggi, pensieri, lettere e buone parole fanno da placebo e mostrano alla persona interessata che le vogliamo bene. La presenza sostiene. Ma quando si dice che si Nasce soli e si Muore soli, è una grande verità. Per quante persone possiamo avere accanto, è la nostra fetta di vita e possiamo viverla solo noi. Il dolore è così. Anche se siamo in due a soffrire per la stessa ragione, ognuno avrà il suo tormento da affrontare, portare avanti o lasciare andare. Nessuno può farlo al posto nostro. È dunque importante non giudicare il dolore altrui. Non possiamo percepire le sue stesse sensazioni, nè fisiche nè psichiche. La fatica, il mal-essere. Non ci resta che accogliere fin dove possiamo e farci presenza silenziosa. Un’anima affranta dedica pensieri alla vita, alla morte, all’amore, ai grandi temi esistenziali. Si pone domande, ricerca risposte, vaga nella mente e crea caos fuori da sé tanto quanto ne ha all’interno. Smuove acque, terreni, montagne… crea valanghe per poi ricostruire con consapevolezze nuove, fatica e fragile fiducia. Come si può comprendere tutto questo movimento? Come si può pensare di entrare appieno nell’energia, nella disperazione, nel dolore che sente l’Altro?

E’ potente e sacro il corpo. Egli lotta, giorno dopo giorno, per le sue funzioni vitali e lo fa silenziosamente, senza dare fastidio. La mente alle volte lo aiuta, altre lo mutila. Dal di fuori di quel corpo tutto sembra semplice, logico, spesso privo di fondamento. “Com’è possibile che non lo veda?” “Come si fa a soffrire così per questo?” “A me non sembra che stia poi così male…” Questi sono i pensieri che ci possono attraversare alle volte, perché indossiamo scarpe diverse da quell’individuo, occhi grandi pieni di compassione, empatia e amicizia, ma che semplicemente appartengono ad un altro corpo. E perfino se quella situazione l’abbiamo vissuta, se possiamo comprenderla con la fina mente, con la logica conseguenza di un vissuto, il nostro non sarà mai uguale a quello dell’Altro. Ogni individuo è unico e così il suo dolore, nonostante sia stato rimestato, maneggiato, rivisitato e consapevolizzato da tanta gente, nessuno è quella persona che lo sta vivendo in quel dato momento. Nessuno può levare la coltre creata dalla sofferenza, ma il corpo, egli, come un eroe antico, continua a lottare per esercitare le sue funzioni, per non morire. Coccoliamolo quel corpo, dedichiamogli pensieri dolci, carezze delicate; alimentiamolo di fiducia piena; osserviamolo mentre si lascia attraversare dal tormento; incoraggiamolo nel continuare a lottare per la vita; abbracciamolo. Non si arrenderà!

Caro Amico, Cara Amica che stai soffrendo,

qualunque sia la ragione della tua angoscia, concediti un respiro. Esso da ossigeno ai polmoni, rilassa lo stomaco, rinfresca i pensieri, libera la creatività, accoglie la speranza sparsa intorno a te da chi ti vuole bene. Accogli l’infelicità di questo momento, ti renderà più lieti i giorni che verranno quando essa cambierà cammino. Siediti, riposa la schiena, rilassa le spalle che tanti pesi stanno portando in questo particolare momento, allarga le braccia per raccogliere l’affetto dei tuoi cari e quando ti rimetterai in piedi, ringrazia le tue gambe che con fatica continuano il cammino verso la luce vitale dei tuoi sogni. Apri il cuore, pomperà il sangue nella direzione più giusta per te. Dì alla mente di riposare un momento, che sarà il corpo a prendersi cura di te. Respira a fondo amico, amica, non tentare di comprendere ora, ci sono dolori così profondi che non possono essere compresi dalla mente umana. Apri ancora le braccia e ora stringile al petto in un abbraccio che comprenda le mille braccia di chi ti ama. Sentile tutte sulla pelle, il loro cuore batte all’unisono con il tuo. Non sei solo, non sei sola, nemmeno per un momento lo sei stato e nemmeno per un momento lo sarai. Accogli dentro di te l’amore che viaggia ad alte frequenze, ti aiuterà a vibrare e tutto cambierà forma. Sii sincero con il dolore, non nasconderti e lascialo passare. Per finire caro amico, cara amica, accendi la musica, canta e balla se puoi, donati amore e affidati alla vita.

Manuela Griso

La Fatica di Amarsi



Fin da piccoli parte la rincorsa all’amore. Della mamma e del papà, tentando di non deluderli. Della maestra e dei compagni per farsi accettare. Del primo fidanzato o della prima fidanzata per farsi amare come la nostra aspettativa spera.
Si resta spesso delusi, si incontrano rifiuti, si spezzano legami, si piange, si crede di non essere abbastanza per essere amati.
La vita spesso ci mette dinnanzi a delle scelte difficili. L’incontro tra l’amore e l’aspettativa, in cui sei tu che devi scegliere tra realtà e fantasia. Ma quale dei due è effettivamente reale? È la tua aspettativa ad essere troppo alta, lontana dalla realtà, o è questo sentimento che si è camuffato con l’aspetto dell’amore?
Per tutta la vita inseguiamo l’amore, ma non ci accorgiamo che lo abbiamo già, dobbiamo solo reindirizzarlo. Ed è la fatica più grande del mondo per moltissime persone.

Che cos’è l’Amore? Cosa vuol dire Amare?
Se leggiamo sul dizionario troveremo una cosa molto interessante.
« L’amore è un sentimento di viva affezione per una persona che si manifesta come desiderio di procurare il suo bene e di ricercarne la compagnia. »
Cita l’amore filiale, materno; l’amore inteso come desiderio sessuale e poi scrive: « Può anche essere rivolto a sé stesso, come manifestazione di egoismo e di egocentrismo ».
Dunque Amarsi per il dizionario significa essere egoisti ed egocentrici. Sarebbe bello conoscere le riflessioni che vengono alla vostra mente dopo aver letto questa definizione.
La prima opinione che abbiamo di noi stessi ci viene donata dallo sguardo altrui. Se mamma e papà ci guardano con dolcezza, ci lodano, sono affettuosi e presenti, sicuramente penseremo di essere personcine di valore. Incontreremo nonni, zii, maestre, compagni che ci rimanderanno altre immagini di noi. Ogni volta, il nostro sguardo interiore calibrerà le informazioni che gli arrivano e rifletterà un’immagine di sé che ci dirà se andiamo bene o no. Chiaramente più immagini di un noi sbagliato ci arriveranno, più verremo categorizzati (pigro, cattivo, pesante ecc ecc) e più crederemo di essere quello che gli altri vedono. A poco a poco l’amore per noi stessi, dato anche dall’istinto di sopravvivenza, può venire meno. Avremo un immagine di noi che giudicheremo inadeguata. Riprendere fiducia in noi stessi e dimostrarci di non essere come ci vedono, sarà molto difficile, perché anche noi, ormai, ci guardiamo con lo stesso specchio.

Il compito degli adulti é come sempre arduo ma indispensabile. Fondamentale. Essere presente, sottolineare la bellezza, i punti di forza, i talenti dei nostri bambini, dare loro un’immagine giusta di sé é davvero estremamente importante. Giusta perché nessuno di noi é solo bianco o solo nero. Sicuramente è essenziale conoscere i propri « difetti » tanto quanto i propri « pregi », la differenza sostanziale sta nel modo in cui trattiamo questo delicato paragrafo della vita e in quale momento di sviluppo del bambino. Ad ogni sensibilità va agito un modus operandi adeguato. Cosa ci guida? L’EMPATIA .
Definisco l’empatia la prima forma di amore. Senza di essa non può esistere il concetto di amore. E ritorniamo alla domanda iniziale: che cos’è l’amore?
Ognuno di noi ha la sua personale risposta. Credo che non si possa dare una definizione unica. Sicuramente tutti avremo pensato a qualcosa di bello, perché l’amore ci ricorda questo. Alle volte però possono esserci persone cresciute nel totale disamore,che ormai sono convinte che quello sia una forma d’amore e che sia l’unica che si meritano. In questo caso l’amor proprio non esiste. Ed è faticoso uscire da questo circolo vizioso.
L’amore per se stessi non é egoismo! Non é egocentrismo!
É la forma d’amore più difficile da mantenere! Siamo immersi in una società che punta lo sguardo sulle mancanze, su ciò che non va bene. Una società che punta il dito nella direzione sbagliata, perché nessuno può agire sull’altro. Possiamo solo cambiare noi stessi. Il dito in questione andrebbe quindi rivolto in altra direzione. Guardarci con sguardo delicato, soffermarci sull’abbondanza, curare i talenti, accarezzare le nostre mancanze e SCEGLIERE chi vogliamo diventare.

Nessuno ci conosce veramente. Ognuno di noi ha i suoi segreti, il suo stesso inconscio ne é un esempio. Scardinare un’immagine ingiusta di sé é un’operazione assai complessa. Significa rinnegare tutta la visione altrui, dove gli altri spesso sono la tua famiglia. Amarsi é un atto coraggioso! Coraggioso e faticoso, ma necessario per essere felici. E dunque… chi vedo quando mi guardo allo specchio?

“Ciao, sono io, che cosa mi mostri oggi? I tuoi occhi parlano,hanno storie da raccontare, immagini da stampare su fogli bianchi con colori accesi e gioiosi. Vedo l’oscurità profonda in alcuni momenti, ma non preoccuparti, ti darò anche il nero. C’è questo io che a volte sembra un tu perchè non lo conosci bene. Imparerai a farlo. Un pezzo alla volta, con fatica, ti vedrai davvero, costruirai la vera te e ti amerai. Saprai quando dire no e quando dire sì. Lo sentirai, dentro di te, come una mamma sente il suo bambino. Devi allenarti come un atleta per le finali olimpioniche. Un giorno dopo l’altro. La prima scelta sarà la più difficile. Domandati: che cosa desidero davvero io? Ce la farai. Ne sono certa. Oggi mi hai visto, è un grande passo. La vita è breve, la strada lunghissima, ma puoi scegliere tu il tratto da percorrere. E’ faticosa, ma può esserlo meno. Liberati dal fardello che porti con te. All’interno ho riconosciuto il senso di colpa, la scarsa autostima, l’immagine di te rispecchiata dagli occhi di chi non ti merita.Lascia la maschera.C’è un dono prezioso che ti aspetta, un dono che vai ricercando negli altri, ma che è già racchiuso dentro di te: l’Amore. Con lui ci sono Rispetto e Fiducia. Ti stanno aspettando. Non ti abbandoneranno, Bambina. Parti per il tuo viaggio.Sii coraggiosa! La vetta ti aspetta. Il panorama è stupendo! Ci incontreremo in cima.”

Buona Rinascita!


Manuela Griso


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