Anche voi da bambini vi siete sentiti dire ” oh, è una bambina così brava e obbediente” oppure “Non obbedisce mai”?
Facciamo insieme una riflessione sul perchè sarebbe meglio non desiderare un bambino obbediente ; partiamo dal definire cosa significa per un adulto avere di fronte a sè un bambino obbediente. Generalmente si tratta di bambini composti, che fanno tutto ciò che il genitore chiede e che non danno troppo fastidio, cioè non creano troppo disagio nelle abitudini e nello stato emotivo dell’adulto di turno. La richiesta di obbedienza è una richiesta “adultocentrica” basata sulla legge del più forte e su un concetto di dominazione e autorità imposta. Un bambino educato non è sinonimo di bambino obbediente. Anche se spesso le due cose vengono confuse tra loro. Tutti i bambini sono educati, imarano ciò che vedono, che sentono e che si sentono dire.
Generalmente il bambino obbediente è tale per tre motivi principali : paura (se non sarò obbediente mi puniranno) , gratificazione esterna ( se sarò obbediente mi premieranno) o un buco d’amore ( se sarò obbediente mi vorranno bene/mi diranno bravo). A lungo termine questi non sono pilastri sufficientemente forti per la costruzione di una relazione sana adulto-bambino, e, più avanti, per la relazione con l’autorità.
Manca una base di fiducia reciproca nella quale viene contemplato il diritto di sbagliare, di riparare ma anche di comprendere le emozioni , aprire uno spazio di dialogo in questo senso a doppio canale dove la realtà e la relazione stessa non viene calata dall’alto ma costruita insieme , sullo stesso piano come esseri umani.
Dai princìpi appena elencati nasce anche il rispetto. Se rispettiamo il bambino nel suo bisogno primario di scoprire il mondo e se stesso , il bambino rispetterà noi come naturale conseguenza, non per un ruolo, non per paura o per mancanza d’amore ma come essere umano che, essendo rispettato, rispetta.
Spesso sento dire adulti dichiarare ” Portami rispetto!” , “Non mi rispetti”, ma cosa vuol dire esattamente ? E’ un concetto astratto molto complesso impossibile da comunicare a parole se non vissuto prima nell’esperienza diretta. Un bambino che non ti rispetta probabilmente non è stato rispettato, in primis nel suo diritto all’errore come maestro di vita e poi nella sua capacità critica, nella comprensione della fase evolutiva che stà vivendo o, più sottilmente, nel suo diritto di muoversi in confini chiari, sicuri, definiti e adattabili alla sua crescita.
L’ obbedienza cieca allontana il pensiero critico. Quindi la domanda da farsi è : voglio che mio figlio diventi un adulto che esegue come un soldato leggi e ordini o voglio che si chieda interiormente se li condivide oppure no ? Il messaggio intrinseco che mandiamo con la richiesta di obbedienza è che il giudizio dell’ adulto (ed in futuro dell’ autorità) valga più del suo e in futuro non saprà sentire, comprendere, far suo, il senso di giusto e sbagliato ed il perchè lo sono.
Il messaggio che mandiamo è che lui non vale, o vale in base alla sua capacità di obbedienza verso gli adulti.
Sarà anche abituato ad essere definito in una qualche maniera, a ricoprire il ruolo che gli viene dato , “un bambino obbediente”, “un bambino disobbediente”. Disobbedire in alcuni contesti viene ritenuto persino un pregio “fa sempre quello che vuole”, “è un ribelle” ; eppure anche la disobbedienza fa parte dello stesso gioco : quello di accondiscendere o andare contro un autorità, qualcuno che ha potere, che stà sopra di noi. Nessuna delle due condizioni riesce a far accedere ad una dimensione di dialogo, rispetto reciproco e ricerca della soluzione comune. Nessuna delle due condizioni insegna l’empatia, lo spazio condiviso (fisico ed emotivo) e la ricerca di ciò che è giusto. Si tratta sempre di un gioco di potere. Una giostra da cui sarebbe meglio scendere tutti se vogliamo vedere fiorire un mondo diverso, migliore.
Recentemente ero accanto ad un bambino di tre anni che faticava a gestire il suo stato emotivo (come è normale che sia a quella età, noi siamo per loro la guida in questi casi affinchè possano conoscere e gestire efficacemente le emozioni di qualunque genere) e mentre gli dicevo “aspetto qui che ti calmi un po così poi potremo parlare” lui rispondeva “io tanto non ascolto mai, non ascolto mai nessuno e non mi calmo mai”. Questo bambino probabilmente si sarà sentito dire spesso queste parole dagli adulti, quindi le ha prese e le ha fatte sue. Quello che gli adulti gli dicono di essere lui è, in questo lui crede. Quindi se diciamo ad un bambino che disobbedisce sempre, non solo ci stiamo ponendo nella posizione dell’autorità che ha impartito un odine (e che non è stato eseguito), o di coloro che sono orgogliosi del suo disobbedire, gli stiamo anche comunicando che questo è quello che lui è, e lui tenderà ad esserlo sempre di più perchè non ha strumenti ancora per potersi costruire un alternativa.
Ad un certo punto, io credo, l’adulto deve scegliere se essere un ‘capo’, un ‘compandante’, un ‘ribelle’ o una guida , un punto di riferimento. Io credo che quanti più bambini potranno uscire dalla ‘stato’ di obbedienza /disobbedienza, tanti più adulti in futuro saranno in grando di applicare il pensiero critico, di rispettare le divergenze , di trovare soluzioni comuni invece che fare le guerre di potere e riconoscere che l’unico potere che abbiamo è quello di scegliere, e per scegliere il bene dobbiamo prima aver avuto l’occasione di poterlo riconoscere e sentire.
Sono oramai noti gli studi scientifici che dimostrano come le lamentele possano incidere in modo negativo sull’attività neuronale. La lamentela viene processata dalla stessa parte del cervello deputata al problem solving : chi espone la lamentela (inclusi noi stessi )emette onde magnetiche sui neuroni dell’ippocampo rendendo inattivo il processo creativo di risoluzione dei problemi.
La lamentela come abitudine protratta nel tempo riduce, dunque, la capacità creativa di trovare soluzioni alle situazioni più disparate della nostra vita.
Il nostro cervello si nutre, come ogni parte del nostro corpo ; nutrendolo con lamenti (propri o di altri) perderemo gradualmente quella capacità di pensiero che porta ad avere la fiducia necessaria a riconoscere che è sempre possibile una soluzione. Non lo chiamerei “ottimismo” e nemmeno “pensiero positivo”, preferisco definirlo “pensiero cosciente”.
Se abbiamo vicino una persona con questa abitudine , spesso in sua presenza potremmo sentirci spossati, privati di energia e spenti. Per quanto bene vogliamo a questa persona tenderemo ad evitarla, ogni nostra parola di conforto sembra non avere presa e ci sentiremo probabilmente anche sfiduciati nei suoi confronti, confermando l’idea che ha già da se, cioè “non c’è rimendio”. Queste persone tendono a non voler ricercare soluzioni ,ponendo ogni proposta di fronte ad una serie di insormontabili difficoltà. Lo fanno, ovviamente, in modo inconsapevole e portate , appunto, da un abitudine. In alcuni casi la miglior soluzione è il distacco, creare la giusta distanza entro la quale non ci sentiamo depradati o inquinati da questa modalità.
Se siamo noi a passare la maggior parte del nostro tempo a lamentarci la prima cosa da fare è accorgersi, prendere consapevolezza di questa abitudine portando attenzione ai nostri racconti, a cosa condividiamo con i nostri cari e amici, e sopra ogni cosa, portando attenzione alla qualità dei nostri pensieri.
Di grande aiuto possono essere anche le sensazioni fisiche : se dopo una condivisione ci sentiamo come svuotati, scarichi e stanchi, come aver vuotato il secchio dell’immondizia ; se abbiamo l’idea che ciò che stiamo vivendo rimarrà così per sempre, se vorremmo che ciò che ci circonda fosse diverso da ciò che è , se ci sentiamo vittime (di qualcuno o della vita, passata o presente)…
La chiave del cambiamento è la Presenza attiva e partecipativa alla nostra vita, inclusi i nostri pensieri, senza questa presenza attiva sarà probabilmente molto difficile anche solo, appunto, accorgersi e dunque attivare tutto ciò che è necessario per cambiare.
Si può invertire l’abitudine al lamento? Certo che si, come per qualunque ‘cattiva’ abitudine servono costanza, tempo ed esercizio.
L’inversione di marcia del lamento è la GRATITUDINE. Un pensiero volto alla gratitudine trova la fiducia nella vita necessaria a radicare in sè la convinzione che c’è una soluzione per tutto.
Ogni sera , prima di andare a dormire, scrivere almeno 3 cose per cui si è grati della giornata appena trascorsa ; anni fa, quando ero nel pieno della mia ristrutturazione del pensiero, scrissi i 100 giorni di gratitudine, fu un esercizio fondamentale per correggere anni di abitudine al lamento.
Condividere con gli amici o i familiari ciò che di positivo ti ha portato la giornata o un’esperienza . Siamo abituati a trasmettere ciò che non ha funzionato, un po’ perche siamo convinti possa scatenare una maggior empatia, un po’ perche a volte non abbiamo altri argomenti . Prova ad ascoltare una normalissima conversazione al supermercato, o in fila alla posta o in qualunque contesto sociale: spesso il focus è su ciò che vorremmo diverso, sui problemi, sulle mancanze. Paradossalmente c’è più compagnia nell’infelicità, condividere l’infelicità ,per qualunque ragione, ti fa sentire parte di un gruppo. Quando inverti la rotta ti accorgi che puoi parlare di molto altro, dei sogni, delle aspirazioni, di ciò per cui sei grato, del bello che ti circonda o del bello che riconosci nell’altro, anche se si tratta di sconosciuti!
Esercitarsi a vedere il bello in ogni cosa. Persino nel momento più buio possiamo apprendere qualcosa di nuovo, o vedere una nuova prospettiva, nulla nella vita accade per caso, la vita accade per essa stessa , senza alcuna connotazione positiva o negativa, siamo noi ad attribuire un significato alle esperienze , siamo noi, dunque a poter scegliere su cosa soffermarci, cosa trattenere e cosa lasciar andare.
Accogliere la vita per come è non è accettazione cieca e passiva, è anzi, il primo passo per il cambiamento. Non è sbagliato voler migliorare la propria vita, ciò che ci avvelena è la pretesa di volerlo fare dalla negazione di ciò che c’è in questo momento.
Il pensiero è energia in una direzione, le parole creano il mondo.
La separazione dei genitori è ormai un elemento comune a molti bambini. Purtroppo però sono ancora poche le volte in cui padre e madre riescono ad accordarsi e ad affrontare la situazione nel migliore dei modi per “il bene dei figli”. Ma qual è il bene dei figli? Chi lo stabilisce? Ogni essere umano è unico ed inimitabile, nella buona e nella cattiva sorte. Questo, è evidente, porta ognuno di noi ad avere dei bisogni diversi gli uni dagli altri. Ciò comporta un contrasto chiaro con i criteri che si reiterano da secoli in tema di separazioni.
Alcuni miti da sfatare che si verificano ancora troppo spesso: 1.”Il bene dei bambini è stare con la mamma” per quale motivo? Chi stabilisce che un genitore, solo in quanto donna, sia più adatto a prendersi cura di un bambino in tutta la sua complessità? Non sono forse le inclinazioni naturali, la visione del mondo, l’impegno costante, le competenze emotive, a dover illuminare certe decisioni? 2.“Il bene dei bambini è la bi-genitorialità” ma davvero riteniamo che alcuni soggetti, senza sostegno alcuno, possano essere genitori consapevoli di ciò che stanno facendo? Persone violente, con dipendenze di ogni sorta, che non si prendono nemmeno cura di se stesse? E questo indipendentemente dal sesso. Uomo o donna non fa differenza. Ci sono madri che dichiarano apertamente di non aver voluto i figli, ma poi, pur di apparire buone e socialmente adeguate, si giocano la carta del tribunale contro i padri. Ci sono padri che non conoscono nemmeno le allergie gravi dei figli, ma che si dichiarano padri presenti e attenti ai propri bambini. Non tutti sono in grado di fare i genitori. Non possiamo pensare che basti mettere al mondo una creatura per diventarlo. E obbligare qualcuno a farlo non è una scelta che comporta benefici effettivi, né per i genitori, né tantomeno per i figli.
Che il bene dei figli sia rimanere solo con il papà non l’ho mai sentito dire, forse perché gli uomini sono più umili sotto certi aspetti e non pensano di poter fare tutto loro. Da sempre sono considerati il genitore numero 2, quello non così indispensabile. Spesso le madri si ergono ad esseri superiori, ma indossando il mantello del martire ” lo faccio perché sono capace solo io, mannaggia a te che sei un incapace” o “se non lo faccio io chi lo fa?” Di fatto si mettono da sole nella condizione del monogenitore nonostante siano ancora in coppia. Avvenuta la separazione mantengono il ruolo e l’ex ha due vie: o tentare di costruire un rapporto paritario rispetto ai figli, o mantenere anche lui il suo ruolo da padre assente . Dove stia la verità è spesso molto difficile capirlo,perché le versioni discostano sotto molti aspetti.
Le storie di oggi sono piene di donne vittime dei propri ex mariti o compagni e tanti sono stati i segnali precedentemente, ma nessuno se n’é voluto occupare. È aberrante e inaccettabile. Mi domando allo stesso tempo quanti uomini ci siano, vittime emotive di donne che si credono il creatore. Che si arrogano il diritto di scegliere a discapito di un rapporto padre/figli, coprendolo anche con il mantello del “bene per i figli”. L’unico tassello univoco a tutti è che il bene per i figli sarebbe poter avere dei genitori che li amino, indipendentemente dai rapporti tra loro; che non si facciano la guerra pensando che eliminare l’altro (ritenuto inadeguato) sia “il bene dei figli”. La manipolazione della realtà a proprio vantaggio, la cecità di fronte a palesi reazioni dei figli che indicano che si sta andando nella direzione sbagliata, magari accompagnati dalla nuova compagna/o, è un modello usuale ai più, durante e dopo la separazione. Non si vedono più, davvero, i propri figli, ma si vede ciò che si vuole vedere. Si pensa che se la situazione fa vivere bene noi, sia certamente così anche per i figli. E mentre loro si arrabattano con strategie di sopravvivenza più o meno evidenti, noi li vogliamo vedere felici, per cui questa sarà la storia che racconteremo a noi stessi e agli altri.
L’altro genitore viene dipinto come assente, immaturo e inadeguato ( padre); poco di buono, pazza ed esagerata (madre). Il risultato sta nel mezzo, dove troviamo figli che non sanno schierarsi, che se lo fanno si sentono colpevoli e che spesso, molto spesso, non vengono creduti. Se uno dei due genitori dice all’altro: “il bambino mi ha detto che… ” si viene subito accusati di essere bugiardi, se non addirittura di alienazione. Ci si ritrova così a dover abbozzare per quieto vivere, a sentirsi dei genitori inadeguati perché non possiamo sostenere il nostro bambino, o a fare la guerra pur di ottenere ciò che riteniamo giusto per i nostri figli.
Come uscire dunque da questo tunnel? Come comprendere quando stiamo realmente vedendo la realtà e quando invece indossiamo lo sguardo del nostro benessere come filtro? 1) Tuo figlio ti dice che dall’altro genitore fa qualcosa che non gli piace fare. Invece di sentirti in colpa o prendere di petto la situazione, senza sapere dove ti porterà, lavora con tuo figlio affinché piano piano possa prendere coraggio e dire al genitore in questione di che cosa avrebbe bisogno. Come fare? Rimandando al bambino che con l’altro genitore può parlare, che sarà pronto ad ascoltarlo, che la sua opinione è importante; oppure provare le strategie del problem solving cercando delle possibili alternative da mettere in atto. Fate una bella lista, con tutte le idee che vi vengono in mente (genitore e figlio), poi rileggetela e spuntate le idee che non sono attuabili. Arriverete a trovare delle soluzioni insieme, mostrando al bambino una strategia efficace di risoluzione dei conflitti, che interiorizzerà nel tempo e potrà far parte del suo bagaglio comunicativo. 2) Vostro figlio vorrebbe stare di più con voi che con l’altro genitore. Analizzate con calma la situazione. Domandate a vostro figlio che cosa fate (o siete) che lo rende più felice quando siete insieme. Senza accusare l’altro genitore o sminuire le sensazioni del bambino, parlate insieme dei suoi bisogni. Ascoltateli. Provate a rimandare l’emozione che secondo voi provano, per verificare se avete ben compreso. A questo punto domandatevi quale emozione scaturisce in voi tutto questo. Riguardate i bisogni del bambino e i vostri. Se riuscite, con empatia, provate a spiegare al bambino, perché in quel momento non è possibile soddisfare quel bisogno. Se sapete già che potrà essere soddisfatto, date loro una scadenza. Se vi sentite impotenti, abbracciatelo. Capirà. 3) Temete che l’altro genitore possa mettervi contro i figli. I figli amano i loro genitori. Indipendentemente da come questi si comportino con loro. Che siano affettuosi e attenti o violenti e assenti, loro li amano comunque. E cercheranno sempre di renderli felici. Anche quando sembra che facciano di tutto per ferirli , in realtà ricoprono il ruolo che gli è stato assegnato. Vogliono dare ragione al genitore, pensando che così sia felice. I bambini vogliono il bene dei loro genitori, alle volte più di quanto i genitori vogliano il bene dei figli. Quando un genitore parla male dell’altro con i figli, potrebbe ottenere un iniziale rapporto conflittuale tra i due, ma esso si risolverà in tempi brevi se quello che è stato riferito non è la verità. I bambini sono piccoli, non stupidi. Sentono il bene e ne sono affamati. Si può cadere però anche nel lato opposto. Ovvero… Il genitore dice la verità e il bambino lo prende per bugiardo e non gli crede. Anche in questo caso, il bambino mostra l’amore verso il genitore che secondo lui è più fragile. Per cui si può ottenere come risvolto un maggior attaccamento. Per evitare tutto questo, è necessario,seppur complesso alle volte, che ogni genitore pensi al proprio rapporto con il figlio, senza intromettersi nelle dinamiche con l’altro. Soltanto così il bambino sarà libero di osservare con i propri occhi, di farsi una sua opinione e di manifestare i suoi stati d’animo senza influenza alcuna. Ci si sente impotenti nel vedere la manipolazione e nel comprendere che è meglio supportare a lato ed eventualmente raccogliere i cocci, senza intervenire a gamba tesa. L’istinto ci porterebbe dall’altra parte, ma il rapporto con l’ex può influenzare la nostra visione delle cose. 4) Domandatevi se foste nei panni di vostro figlio come vi sentireste. Chiedetevi che cosa sta provando, se corrisponde a come vi sentireste voi. Analizzate i conflitti che pensate stia vivendo e create con lui uno spazio di ascolto. Soltanto voi due. Apritevi a lui. Dedicategli del tempo vero. Dove la vostra attenzione non sia interrotta dal suono del cellulare, dalla televisione o dalle parole di un altro adulto. 5) Non rinnegate il passato. Avete vissuto con il padre o la madre dei vostri figli per un certo tempo di vita. Avete condiviso gioie e dolori. Vi siete amati e magari anche odiati. Ma da quel rapporto sono nati i vostri figli, che meritano di sapere che i loro genitori si sono amati, che il rapporto è mutato, ma il rispetto resterà sempre. Hanno bisogno di saper e che in qualche modo, una parte di amore resterà per sempre. Altrimenti non crederanno più ai vostri “ti voglio bene”. Penseranno che sarà così finché non faranno qualcosa che vi farà arrabbiare davvero. E da lì, allora, odierete anche loro. Dobbiamo dare loro l’assoluta certezza che il nostro amore per loro non passerà mai. Dobbiamo essere coerenti. Se passiamo dall’amore all’odio con facilità in rapporti importanti, è come se confermassimo loro che prima o poi li abbandoneremo, esattamente come abbiamo fatto nella relazione con l’altro genitore.
Non ci sono formule magiche per una “separazione serena”. I due termini insieme già suonano come una dicotomia. Ma lo scopo di tutto questo è ricordarsi che non esiste “IL bene dei figli”; esiste l’idea che ognuno di noi ha rispetto a questo e l’unica legge che davvero dovremmo tenere a mente è quella di continuare a rispettarsi nonostante tutto e ad osservare i nostri figli, senza filtri attivi. Questa è l’unica base per il vero bene dei figli. Da lì si può partire a costruire tutta la parte gestionale e organizzativa, tenendo presente le esigenze e i bisogni dei bambini, partendo dai loro sguardi. Ricordandosi che fare il genitore è un onore, non un peso. Per cui non siamo eroi se abbiamo un nucleo monogenitoriale o se stiamo con i nostri figli la maggior parte del tempo perché l’altro genitore è impossibilitato da eventi o da volontà. Noi siamo quelli fortunati. Quelli che possono godere di momenti importanti che non torneranno più. Non sentiamoci eroi e nemmeno martiri, vittime di uomini o donne latitanti che non ricoprono il loro ruolo. Sentiamoci grati per poter godere ogni giorno della presenza dei nostri figli, del loro amore e dei loro preziosi insegnamenti.
Cari mamma e papà, ho due anni e non capisco come mai devo stare a volte lontano dal papà e a volte dalla mamma. Voi me lo avete spiegato, ma io non ho capito bene. Vorrei potermi addormentare ogni sera con la favola del papà e il bacio della mamma, vorrei potermi arrabbiare con uno e farmi consolare dall’altro per poi tornare ad abbracciarci tutti insieme. Cari mamma e papà, ho 4 anni e sono arrabbiato. Vorrei non dovermi spostare da una casa all’altra in continuazione e poter dormire con voi nel lettone come facevamo prima. Vorrei non svegliarmi nel cuore della notte e chiamare papà senza che mi possa rispondere e vorrei poter abbracciare la mamma quando esco da scuola ogni giorno. Non voglio dover andare via dal papà quando stiamo giocando e non voglio lasciare la mamma quando sono stanco. Non mi piace vivere così. Cari mamma e papà ho 7 anni. Nella mia classe ci sono tanti bambini che hanno la mamma e il papà in due case diverse. Non mi sento speciale, mi sento solo triste e alle volte mi sento un peso. Tu, mamma, ti arrabbi se sto con te nel giorno in cui dovrei andare da papà, ma papà non può. E alle volte invece sento te, papà, che vorresti andare a sciare ma poi dici: ma devo stare con mio figlio. Vorrei non dover scegliere la domenica se stare dal papà o dalla mamma. Vorrei che foste voi a decidere perché per me è troppo difficile scegliere. Io voglio bene ad entrambi. Cari mamma e papà ho 14 anni. Vi siete separati da tanto ma ancora vi sento parlare male l’uno dell’altra. A volte papà mi dice che sono come te, mamma, e ho capito che lo dice con un tono dispregiativo. Altre volte mamma mi dice che tu sei un egoista perché non rispetti gli impegni presi. Ma io lo so, papà, che tu se non vieni è perché hai un motivo valido, lo so che mi vuoi bene e che per te sono importante. Quando siamo insieme parliamo, stiamo insieme, ti dedichi a me. Io lo so, mamma, che tu sei una donna forte e in gamba, che alle volte quando non mi vedi, quando sei incentrata su di te, non lo fai perché non mi vuoi bene, lo fai perché pensi di darmi un buon esempio prendendoti cura di te. Ed è vero mamma, in parte è così. Quando papà mi dice che sono come te, io non la prendo male, perché per me è un complimento. Non sono più una bambina, ma mi domando come possano due persone amarsi tanto e poi farsi così del male per tanto tempo? Perché non la smettete? Farete così anche con me se non farò quello che volete voi? Cari mamma e papà, ho 20 anni. Vi ringrazio per essere stati la mia mamma e il mio papà. Per aver dato ciò che siete riusciti a dare, perchè sono fiera di me stessa e questo è anche merito vostro. Ora sono in terapia per comprendere quali colpe ho avuto nella vostra storia. Spesso mi sono sentita usata per ferire l’altro, mi sono sentita di peso nelle vostre nuove vite. Devo costruirmi un modello d’amore che sia solo mio. Ho tanto lavoro da fare, tante domande a cui dare risposta, ma non sono più arrabbiata con voi. So che mi amate a modo vostro e che ora l’indifferenza tra voi ha concesso la pace. Gioirò il giorno in cui vi riconoscerete nuovamente e saprete vedere la luce che c’è in ognuno di voi, la stessa luce che incontrandosi mi ha permesso di venire al mondo. Vi amo nonostante tutto e vi sono grata.
N.B. Questo articolo si riferisce a casi di separazione che escludono violenze domestiche, psicologiche e fisiche. Esclude situazioni limite, siano esse dettate da forte conflittualità o da dipendenze di vario genere, dove la sola legge può intervenire per la salvaguardia della prole e degli stessi genitori.
Molto si trova, al giorno d’oggi, nella psicologia, nell’educazione, nelle neuroscienze, nella filosofia e in molte altre discipline, sul tema delle emozioni, come riconoscerle, come ‘chiamarle’, varie strategie per gestirle.
Le emozioni sono uno strumento importante per orientare la psiche nel mondo, rispondendo in modo automatico, efficace (e a volte efficiente) agli stimoli esterni.
Sono un “fatto” terreno, meraviglioso e… passeggero (secondo la neurologia moderna infatti la durata media di un emozione nel nostro cervello dura circa 90 secondi)
Ci sono persone e situazioni che emozionano, l’ innamoramento è il frutto di una serie di emozioni, così come il terrore.
Si diventa dipendenti persino da quelle reazioni chimiche che le emozioni scatenano ( endorfine, dopamina, serotonina, adrenalina, ossitocina…) quindi siamo alla ricerca di quegli stimoli in grado di risvegliarle, tra questi, il dolore ma anche l’ eccitazione.
Gli eccessi ,a volte, in una polarità o nell’ altra.
Il sentimento è anima, include e trascende l’ emozione.
Lo Stato di innamoramento che perdura nel tempo, che non passa quindi con la routine, con le abitudini o l’ assuefazione, è un sentimento.
La gioia come sentimento è diversa dall’ eccitamento gioioso, è quiete estatica dove tutte le sensazioni sono esaltate.
La calma è un sentimento, ma anche il rancore.
L’ amore nella sua espressione più alta, che sia nella coppia o in altre manifestazioni, è quindi molto più che un insieme di emozioni.
L’ amore come sentimento è in grado di affrontare l’ impermanenza dell’ emozione e rendere duraturo quello stato di grazia dell’ innamoramento.
Non è scontato nè banale. È impegno, attenzione a se stessi, all’ altro, al mondo circostante.
È vigilanza.
Per il sentimento è necessario molto impegno (e autoconoscenza).
L’ emozione è più immediata, facile, solo che che ad un certo punto…esaurisce.
Abbiamo visto che di per sè le emozioni sono un “flash” che ci attraversa velocemente , cosa le rende allora così durature invece? come mai ci sentiamo arrabbiati per giorni o entusiasti o impauriti magari anche per anni?
Siamo noi che tratteniamo l’ emozione, vi agganciamo pensieri, ricordi, creiamo abitudini e convinzioni che ci rendono più ricettivi ad alcune emozioni piuttoste che altre…
L’ emozione è merce di consumo, oramai anche le industria del marketing e della pubblicità conoscono quali tasti toccare per ingenerare in noi una determinata emozione e dunque una determinata azione ; la stessa cosa accade nel mondo dell’arte.
Il sentimento ha bisogno di essere alimentato, ed in quest’ epoca dove vige il “tutto e subito” si preferisce spesso il brivido dell’emozione, immediata e fugace.
Io credo ancora che non ci sia cosa più bella del coltivare il sentire, rammendare, recuperare, sanare, portare cura nelle zone dolenti e nutrimento a quelle armoniose ; coltivare il sentimento è fare Anima.
A volte è faticoso farlo in modo consapevole, faticoso come lavorare la terra, una fatica, però, ripagata nel tempo dal frutto.
Il processo di riconoscimento dell’emozione e la sua liberazione , la sua integrazione al sentimento, ci permette un grado di azione libera (autentica) più ampio. Le nostre scelte non sono più, a quel punto, dettate dall’ emotività del momento, ma diventano scelte mature, che seguono un sentimento appunto, un emotività cosciente , l’unione di percezione, emozione, capacità di giudizio e coscienza.
Allora l’invito è, si, nominare e riconoscere le emozioni ma anche educarci ai sentimenti in modo attivo e il più possibile lucido, affinchè le nostre scelte siano scelte dell’ anima e non dell’ impulso.
Quando cuore, corpo, mente e pancia sono allineati, quando siamo presenti e coerenti con le parti di noi , più autentica diventa la nostra azione e presenza nel mondo.
Molti di noi in questo periodo si trovano, o si troveranno, ad attraversare questa fase: l’ ambientamento è, propriamente nel suo termine ,l’adattamento ad un ambiente diverso dal conosciuto, per il bambino, per il genitore, e anche per l’ educatore che si trova a relazionarsi con persone nuove che hanno differenti modi di interagire.
Questo processo delicato pone le sue fondamenta sulla fiducia reciproca, tra adulti, tra adulto e bambino e nel bambino stesso. E’ un momento che richiede tempo, delicatezza, comprensione, ritualità e calma.
Ecco alcuni suggerimenti utili per un buon ambientamento:
Prepara il bambino alla novità, spiegagli dove andrete, cosa farete, inizia a raccontare quello che accadrà in modo che lui o lei possano avere il tempo e lo spazio di manifestare domande, dubbi o paure e voi di accogliere e rispondere.
Prepara te stesso al lasciare andare, chiediti se hai fiducia nelle persone che stai per incontrare, nel luogo che stai per conoscere meglio, a volte il distacco può essere più difficoltoso per il genitore che per il bambino. Può essere utile dire a se stessi che il nostro bambino starà bene, sarà trattato con delicatezza e rispetto e non un briciolo di amore verrà meno tra voi, anche se vi state separando per alcune ore. Potresti sentirti in colpa, potresti avere paura, parla delle tue emozioni, di cosa provi con gli educatori, sono pronti ad accoglierti, anche per te è un momento delicato. Create alleanze con loro sulle basi del dialogo e dello scambio sincero.
I bambini sono tutti diversi ,quindi lasciate stare confronti, anche solo con i fratelli, ogni bambino reagisce al distacco in modo differente in differenti momenti, che sia un rientro dalle vacanze, che sia un rientro da una malattia o una nuova esperienza, le reazioni possono cambiare in base allo stato emotivo del momento, in base allo stato emotivo del genitore, e molti altri fattori. La soluzione migliore è permettersi di stare , di accogliere quello che è in quel momento. Alcuni bambini si ambientano facilmente, in modo semplice e fluido, per poi essere più richiedenti a casa. Altri piangono disperatamente al momento del distacco per smettere nell’ istante stesso in cui il genitore chiude la porta dietro di se. Altri ancora rielaborano il distacco a distanza di giorni o mesi. Tutto è normale, tutto è possibile. E’ un processo, a volte faticoso, a volte frustrante, a volte più fluido.
Saluta SEMPRE il bambino prima di andare, rassicuralo del tuo ritorno, o preparalo per chi verrà a riprenderlo, questo rafforza il vostro legame di fiducia e col tempo vedrà che nessuno lo sta abbandonando. A volte volte potresti pensare che , se vai via di nascosto in un momento in cui lui gioca ed è distratto si possa evitare la difficoltà, ma così non è e anzi, questa modalità può minare il vostro rapporto.
Mantieni la posizione. Una volta salutato il bambino sarebbe meglio evitare di tornare, prolugare i saluti con tira e molla, riprendere il processo da capo, si rischia di interrompere quello precedente e creare una lunga agonia oltre a trasmettere al bambino ansia e indecisione. Può essere molto utile inventare un vostro personalissimo rituale di saluto così il bambino sà che da quel momento vi saluterete per rivedervi all’ uscita.
Ciò che tu provi lo sente. Per questo più noi rimaniamo calmi e fiduciosi, più sarà semplice per il bambino connettersi a quella calma e fiducia.
Durante l’ ambientamento, quando il bambino ti vedrà tornare potrebbe correrti incontro felice, o arrabbiato o piangendo, preparati ad accogliere la sua emotività. Potrebbe ever bisogno di più contatto del solito, potrebbe chiederti di dormire abbracciato, di essere imboccato, e varie forme di cura, anche non più “necessarie”, ma che lo diventano in quel momento. Piano piano prenderete il ritmo, anche la scuola diventerà un suo porto sicuro, vedrà che si torna sempre a casa, acquisirà fiducia e ritroverete le abitudini di sempre.
Per le educatrici e gli educatori, vale tutto il precedente, lascia andare l’aspettativa e l’ansia del dover fare e dover sembrare. Una volta superato il momento del distacco il bambino dovrà prendere le misure, studiare gli ambienti, le persone intorno a lui. Non è necessario rendersi simpatici, o accelerare stimoli già in soprabbondanza, perchè si fidi di te. Prova a sederti e osservare, in attesa di un segnale che il bambino stesso ti darà, vedrai che sarà lui a indicarti il modo, il momento giusto, diverso per ognuno, in cui vuole che lo si avvicini. Capirai tempi e momenti. Costruire un rapporto di fiducia da zero richiede tempo, calma e accoglienza.
Come avrai notato Accoglienza è una parola che si ripete spesso nella durata di questo processo. Accogliere le tue emozioni, quelle del tue bambino, accogliere tempi e modalità…accoglienza e fiducia sono gli strumenti essenziali per questa fase (e molte altre).
Per curiosità e approfondimenti potete scriverci alla mail apiccolipassisicresce@gmail.com
Nell’antichità ci si trovava in cerchio, intorno ad un fuoco e si raccontava. Si raccontavano miti e leggende, storie e aggiornamenti. Era un modo per tramandare, per passare insegnamenti e moniti, per arricchirsi di conoscenza e saperi. La parola, parlata e ascoltata, aveva (e ha) un impatto emotivo forte : raccontare richiede presenza , sia da parte dell’oratore che dell’ ascoltatore, richiede partecipazione attiva, coinvolgimento, cuore.
Per un bambino , ascoltare una storia significa poter aprire le porte allo spazio della fantasia e dell’ immaginazione , significa potersi domandare rispetto ai grandi “perchè” della vita, trovare soluzioni dentro di sè, sollevare curiosità. Un racconto dona la possibilità introdurre temi altrimenti difficili, di accedere al dialogo, alla relazione vera e propria attraverso voce, sguardo, emozioni, condivisione.
Al giorno d’oggi l’ eccesso di stimoli e l’accesso alle illimitate possibilità comunicative rende, a volte, persino difficile trovare il tempo e ristabilire l’importanza di questa pratica che viene , per lo più, delegata a enti esterni (scuola, biblioteche, librerie…) o confusa col guardare una storia su grande (o piccolo) schermo.
Un cartone animato o un videogioco raccontano si storie ma senza l’ ingrediente principale : la relazione.
Un bambino (o un ragazzo) che guarda una storia riceve in modo passivo delle informazioni, “premasticate”; per quanto buon contenuto possa avere un cartone animato si tratta sempre di un atto educativo passivo, un processo iniziato e concluso, finito.
Nell’ ascoltare un racconto invece il bambino si trova a dover costruire dentro di se le immagini , è stimolato a crearsi uno scenario interiore, ipotizzare soluzioni, prevedere finali differenti, aggiungere o togliere particolari, è attivo, c’è uno scambio che allena alla relazione, all’ ascolto, all’essere co-creatori. L’ educazione passa proprio dallo scambio.
I racconti possono essere letti ma anche inventati insieme, partendo da elementi delle vita quotidiana, dalla ricerca del bambino stesso rispetto ai “perchè”.
“Perchè piove?”, “Perchè il bruco si chiude dentro un sacco?”, “perchè il mare è salato?”, “Perchè il cane è morto?”, “Perchè la nonna non può venire giù dal cielo?”, “Perchè l’erba è verde e non blu?”…
Questo non significa dare risposte fasulle , tutt’altro. Si possono correlare storie fantastiche alla naturale ricerca scientifica del bambino, si possono usare entrambi i canali seguendo l’interesse del bambino stesso e accanto alla razionalità attivare il gioco del pensiero fantastico.
“La fantasia non è un lupo cattivo del quale si debba aver paura.” (Gianni Rodari)
Cito Gianni Rodari che nel suo libro “Grammatica della Fantasia” esprime al meglio quanto fondamentale sia affiancare al raziocinio la fantasia.
“Se un bambino scrive nel suo quaderno «l’ago di Garda», ho la scelta tra correggere l’errore con un segnaccio rosso o blu, o seguirne l’ardito suggerimento e scrivere la storia e la geografia di questo «ago» importantissimo, segnato anche nella carta d’Italia. La Luna si specchierà sulla punta o nella cruna? Si pungerà il naso?”
E concludo con queste parole a mio avviso illuminanti, sempre di Rodari :
“Se una società basata sul mito della produttività (e sulla realtà del profitto) ha bisogno di uomini a metà – fedeli esecutori, diligenti riproduttori, docili strumenti senza volontà – vuol dire che è fatta male e che bisogna cambiarla. Per cambiarla, occorrono uomini creativi, che sappiano usare la loro immaginazione.“
Dunque lo sforzo immaginativo non è un processo marginale nello sviluppo di un essere umano che, si spera, possa contribuire crescendo alla costruzione di una comunità sempre più vicina all’armonia e alla condivisione pacifica. Serve, l’immaginazione, ad alimentare l’atto creativo, la capacità di creare nuove strade, di trovare soluzioni, di essere parte attiva della comunità stessa.
Trovare il tempo di raccontare, o leggere insieme un racconto, significa fare dono di sè, aprire mondi, creare legami e stimolare il pensiero autonomo.
“Quando mi vedi solo, che gioco con un rametto, un filo d’erba o osservo le nuvole, non ti crucciare, non sono solo, sono con me stesso. Un me divertente, riflessivo, con cui mi piace stare. Non sono solo. Sto da solo. Non sono triste per questo, sono io che lo ricerco. E’ uno stare con me stesso che mi permette di ascoltarmi, di esplorare il mondo, di analizzare, sentire… “
Troppo spesso l’adulto presume che lo stare in disparte di un bambino all’interno di un gruppo sia indice di un problema. Difficoltà sociale od emotiva, ma in ogni caso, sintomo di un qualcosa che non va . In realtà, l’accezione negativa alla solitudine la diamo noi adulti e spesso in modo frettoloso parliamo di “asocialità”. Gli adulti spesso non sono in grado di stare con sè stessi e per questo hanno BISOGNO degli altri. Da questo paradigma culturale nascono le convinzioni che lo stare da soli, a prescindere dal fatto che sia o meno una libera scelta, non sia mai sinonimo di Ben-Essere, ma sempre di Mal-Essere.
Dice Wikipedia: “La solitudine è una condizione e un sentimento umano nei quali l’individuo si isola per scelta propria (se di indole solitaria), per vicende personali e accidentali di vita, o perché isolato o ostracizzato dagli altri esseri umani, generando un rapporto (non sempre) privilegiato con se stesso.”
Riflettendo…. Se pensiamo a quando da ragazzi si instauravano quei legami di amicizia molto forti, in cui si viveva quasi in simbiosi, quando finivano o quando non ci si poteva vedere, come ci sentivamo? Persi. Disconnessi da noi stessi. Questo perchè si creava una sorta di DIPENDENZA AFFETTIVA, tipica nelle storie d’amore, dove il bisogno dell’altro genera una sofferenza tale da paragonarla alla disintossicazione. Pensate invece ora a quanto sia importante drogarsi di se stessi. Conoscersi a fondo, sperimentarsi, sentirsi. Cercare l’altro non per bisogno, ma per scelta, quanto deve essere liberatorio? Per noi e per l’altro. Alcuni bambini sono così naturalmente, senza interferenza alcuna. E cosa fa l’adulto? Lo crede sbagliato, lo etichetta, cerca di deviarlo per farlo entrare in relazione costante con i pari, pensando di aiutare il proprio bambino o alunno in realtà si crea un danno enorme.
Sicuramente è necessario partire dall’osservazione del bambino o della bambina. Quando si isola? Per quanto tempo? Quali emozioni trasmette il suo corpo? Com’è il suo viso? Se ci avviciniamo cosa prova? E’ assente o presente? Partecipa ad attività di gruppo? Come si relaziona con gli altri? Quali emozione esprime con maggiore frequenza? Piange? Ride? Gioca o sta fermo? Osserva gli altri o sta nel suo mondo interiore? Fantastica o resta su un piano reale? Gli altri lo cercano? Con l’adulto che relazione sviluppa? Queste e moltissime altre domande possono fare da sfondo all’occhio che osserva e dovranno essere rielaborate all’interno del contesto ambientale famigliare e scolastico in cui il bambino vive, prima di poter valutare se la solitudine di cui si accerchia sia utile al suo sano sviluppo o stia diventando un impedimento.
L’interesse di cui sono prede certi bambini, risulta essere troppo per garantirne uno sviluppo sereno. Se anni fa la problematica genitoriale più frequente riguardava il fatto che i bambini venissero lasciati a loro stessi, oggi affrontiamo la dinamica opposta: il bambino iper osservato e che se non rispetta la “tabella di marcia” che il genitore ritiene idonea, egli viene snaturato, defraudato della sua identità tramite il senso di colpa e l’inadeguatezza che legge negli occhi dell’adulto.
L’attenzione alla solitudine e allo spazio che ha nella vita dei bambini si è alzata sicuramente e necessariamente negli ultimi due anni. La pandemia da Covid-19 ha impedito i rapporti sociali, la permanenza a scuola, le visite ai famigliari. Ci ha isolati. Questo ha generato una forte pressione psicologica ed una accelerata ancor più importante verso l’equazione solitudine=malessere. Se c’è una cosa però che possiamo aver appreso in questo delicato periodo è anche la capacità di sentirsi vicini pur essendo fisicamente lontani. Questo significa che pur stando isolati, un filo che ci unisce lo abbiamo sempre, se lo desideriamo. Sta qui la grande ricerca della verità. La libera scelta di ognuno di noi e la comprensione nonchè accettazione e fiducia che l’adulto ha , del e nel , bambino che ha messo al mondo. Ogni bambino è competente. Sa quello che è meglio per lui, per il suo sviluppo. Restando con occhio rivelatore, poniamoci in ascolto, depuriamoci dalle equazioni impure e meditiamo sulle intenzioni e le percezioni. La realtà viene filtrata dal nostro vissuto, per cui più siamo liberi da preconcetti, più possiamo sostenere realmente la vita dei nostri bambini.
Nel metodo Montessori il lavoro singolo è necessario alla formazione dell’individuo che in quanto essere unico e irripetibile, ha esigenze del tutto personali che lo guidano alla ricerca dell’attività atta a soddisfare il periodo sensitivo che sta vivendo. L’adulto può avere il ruolo di facilitatore e sostenitore della vita che si sta formando, solo se ripone fiducia nel bambino, se riesce a vederlo senza i suoi filtri, così com’è, nella sua interezza ed unicità, rispettandone la natura, permettendogli di mostrare sia i talenti che le difficoltà, per alimentare gli uni e lavorare sulle altre. E’ dunque comprensibile ora l’importanza del lavorìo individuale, concentrato e personale del bambino, che sta apprendendo le fattezze del mondo, ne sperimenta le leggi, studia le combinazioni e si pone domande a cui, scientificamente, proverà a dare risposta se gliene viene data la possibilità.
immagine de “Il Mondo di Anya”
Pensate dunque se è così fondamentale la solitudine per apprendere ciò che è esterno a noi, quanto sia necessaria per sentire ciò che accade DENTRO di noi. Le emozioni, le sensazioni, i sentimenti, le domande, i dubbi, riconoscere i talenti, il proprio corpo e i suoi segnali. Vogliamo dunque noi intrometterci in questo magic moment tra il bambino e se stesso, pensando superficialmente che se non gioca sempre con qualcuno diventi asociale o sviluppi un’incapacità relazionale?
La riflessione nasce dunque spontanea e forse, la solitudine può iniziare ad essere vista anche come una forma di meditazione necessaria all’equilibrio e all’armonia con se stessi.
L’ uomo o la donna perfetti o “ideali” non esistono.
Le coppie perfette o “ideali”, illuminate newage, che non discutono mai e non hanno mai divergenze di opinione non esistono, se non dopo una lunga sequela dei suddetti, la saggezza, la volontà imperterrita e la capacità del tempo di smussare le spine e godere delle rose. Quell’ illuminazione lì è il dono di mostri e battaglie che sono diventati alleati e risorse, frutto di grande lavoro e sicuramente molto amore.
L’ ideale serve, semmai, fuori dal mondo delle favole e nella realtà tangibile, come “linea guida” per calare lo spirito nella materia.
Appurato che il principe e la principessa azzurri non esistono, e che amare vuol dire accogliere ciò che è , questo non significa restare immobili nascondendosi nel “sono fatto/a cosi”. Altrimenti non ci sarebbe incontro alcuno.
La nostra Personalità è in continuo movimento e se posso rendere migliore la vita mia e del partner perche non farlo? In un ottica di comunione la felicità di uno è la felicità dell’ altro e in un “palleggio” di gioie reciproche si vince la partita.
Esprimere ciò che ti piacerebbe vivere o ricevere non significa ” ti voglio diverso”, significa anzi rendersi nudi di fronte all’ altro/a e agevolarlo/a nella relazione.
Risparmio di energia notevole, come avere in mano una ricetta, gli ingredienti sul tavolo e dover solo cucinare la torta.
Ovvio che, prima, bisognerebbe aver chiaro cosa vuoi, la direzione verso cui ti piacerebbe “andare” e saperlo comunicare. Non semplice ma possibile.
Quando la richiesta non nuoce nessuno, rendersi disponibili alla risposta è come scoprire un altro mondo, sconosciuto perche è dell’ altro e arricchirsi di nuova esperienza.
Non rendersi disponibili significa non voler entrare in quel mondo. Quindi non essere parte del mondo dell’ altro.
Esempio che vivo nel quotidiano:
se io faccio addormentare un bambino con una canzone perche a me piace cantare ma quel bambino mi dice o mi fa capire che per lui è più facile se gli faccio una carezza in silenzio ,non posso dirgli : ” eh ma io sono fatta così, canto canzoni”, pensando di farla franca…neanche fossi Tosca otterrei un buon risultato perche quello è un bambino da carezze e non da canzoni.
Lui è deluso ed io devo fare il doppio della fatica offrendogli qualcosa che non gli serve e che mette anche lui nella difficoltà di “farsela andar bene”.
Insomma nessuno è contento , entrambi viviamo la frustrazione, eppure la soluzione era pronta.
Quello che posso chiedermi come adulto ed anche nella relazione tra adulti è
” sono disponibile alla sua richiesta?”
– Si, la relazione si fortifica, l’ altro si sente capito, si instaura fiducia reciproca, tutto si alleggerisce e diventa una bella esperienza per entrambi essere insieme.
– No, allora o mi adatto alla fatica vivendo spesso quella relazione con tensione, o faccio in modo che a rispondere a quella richiesta sia qualcun altro più disponibile . E questa sarebbe una scelta più amorevole e onesta per entrambi, piuttosto che dirgli “sono fatta/o cosi”.
La verità è che “non sono disponibile”.
La DISPONIBILITA’ all’ altro è la chiave delle relazioni ; capire se si è disponibile ad altro oltre al conosciuto ed in quale misura è una grande presa di coscienza.
L’ essere in comUnione è poter accedere al mondo dell’ altro, e viceversa , è scambio, equilibrio dare-ricevere.
Quando uno solo dà e uno solo riceve la relazione non è paritaria, è una relazione a cascata che si muove in una sola direzione. Se parliamo di relazione di coppia lo squilibrio della comunione logora entrambi.
E siccome non siamo alberi da frutto che sfoggiano una sola qualità di fiore, ma universi poliedrici che possono decidere cosa essere, la frase ” non puoi chiedere banane ad un melo”, oppure “chi nasce tondo non muore quadrato” vale fino ad un certo punto. Vale solo, cioè, se tu hai proprio deciso di essere un melo e di morire come sei nato.
Tutto il resto è pura CREAZIONE o CoCREAZIONE.
Il grado di disponibilità racconta il grado di complicità nella “squadra”.
Una buona complicità è fatta di movimenti reciproci verso un risultato comune.
La gioia di entrambi è la vittoria e “squadra che vince non si cambia”.
Maria Rosa Iacco, mery.iacco@gmail.com
Consulente per la promozione e lo sviluppo della consapevolezza, educazione all’ espressione del potenziale unico e inimitabile per una vita piena e realizzata.
Quante volte il nostro dialogo interiore si è soffermato su questa modalità?
Quante parti di noi abbiamo soffocato o storpiato con l’intento di essere amate ?
Quante volte abbiamo recitato una parte, imitato altri considerandoli migliori?
Migliorarsi è un intento buono di per sé, quando significa aumentare il nostro stato di Ben-Essere, ed è vero che spesso grazie alla relazione con gli altri riusciamo a vedere parti di noi altrimenti irraggiungibili.
Questo però non significa snaturarsi o peggio, sacrificarsi, come strategia per ricevere amore.
L’amore non è mai questione di merito.
Nè tanto meno di strategia.
Sei amata, sei amato così come sei.
L’essere più o meno funzionali all’interno di una relazione non ha a che vedere col merito. L’amore esiste a prescindere. Ciò che dimentichiamo è l’importanza di sentire amore dentro di sé, per se stessi e poi anche per l’altro, esplorarsi e cambiare o curare ciò che ci allontana dall’amore perché sentiamo che è qualcosa che fa bene a noi per primi e questo porta ,si, benefici nella relazione.
Il confronto con gli altri poi, dinamica che viene comoda all’industria della performance, è lontanissimo dalla ricerca del benessere.
Semmai possiamo fare confronti con noi stessi, nel tempo che abbiamo vissuto, per vedere dove siamo, per orientarci.
Ma ciò che conta davvero è Sentirsi, Sentire.
Se qualcuno ti mette a confronto o paragone con altri, con storie passate, o con un ideale che ha in mente, se qualcuno indica te come bussola per il suo benessere o malessere (e tu gli credi) o se sei tu che lo fai con l’altro…stai andando fuori strada. Ti stai perdendo.
Tu sei l’artefice, tu sei creatrice, creatore.
Non puoi modellarti come creta su ciò che è desiderabile per qualcun altro senza ,ad un certo punto, romperti in mille pezzi. Non puoi modellare l’ altro come lo vorresti senza ad un certo punto vedere cadere l’ intero castello di carta al primo soffio di vento.
Puoi ,invece, s-coprirti, puoi svestirti dai panni accumulati negli anni, dai ruoli interpretati, puoi scrostare lo sporco delle ferite e aprire finestre dove vi sono muri protettivi.
La paura tiene sotto coperta l’amore.
La paura di non essere abbastanza.
La paura di non essere adeguati.
La paura di essere abbandonati e lasciati soli.
E per quante anime meravigliose si possano incontrare sulla nostra strada, nessuna ci salva da queste crepe interiori se non siamo noi per primi a lanciare la corda e iniziare ad arrampicarci verso l’uscita.
Chi dovrà andarsene se ne andrà comunque, perché cerca altro, perché egli stesso è perso nel suo dolore e nella sua confusione, o perché è esaurito il tempo condiviso insieme, la funzione di quella relazione si è conclusa.
Chi vorrà restare resterà comunque , che tu abbia la pancia , la cellulite, le rughe , un carattere difficile o i debiti da pagare.
Non è il merito che determina la qualità dell’amore o delle relazioni. È il rapporto che hai con te stessa, con te stesso, con il tuo passato, con i tuoi antenati, con il dialogo interiore e con la direzione che vuoi dare alla tua vita che lascia o meno accesso all’ amore.
Scopri allora come ,prendendoci cura del dialogo interiore , prestando ascolto a quella voce silenziosa che spesso graffia e indica punti di erosione, possiamo influenzare anche il nostro modo di vedere le cose, di sentrCi e comportarci.
Esistono dolori così profondi che risultano invisibili. Delle lacerazioni così intime che se non accarezzate, cullate, ascoltate, possono portare ad una morte silenziosa. Il dolore consuma. Alle volte lascia uno straccio umido a terra e spera che qualcuno lo possa raccogliere. Le lacrime versate sono così tante che il corpo si asciuga. Il cuore spezzato in mille piccoli pezzi non sa se battere più forte per tentare di restare in vita o lentamente per conservare energia sufficiente per battere ancora a lungo.È un dolore sordo ma acuto, lancinante. Guaisce come un cane abbandonato, ma la voce resta muta all’interno di noi. Il lutto perinatale che tantissime donne hanno subito e subiscono è un qualcosa di illogico. Nella naturalità del ciclo vitale, la morte arriva dopo aver vissuto a lungo e i genitori muoiono prima dei figli. Qui il processo si inverte e ci si ritrova a dover affrontare l’innaturalità. La morte di un figlio è una sofferenza talmente lancinante che ti lascia solo.
Nessuno può comprendere ciò che stai vivendo: le sensazioni di perdita, le emozioni di rabbia, di ingiustizia che stai attraversando. La convinzione profonda che nemmeno il papà del bambino stia vivendo la medesima sfida, ci porta ad auto-isolarci e ad isolare l’altro. Non è semplice avvicinarsi a chi sta soffrendo così tanto. Le parole non sono mai abbastanza. Il contatto a volte viene rifiutato. La paura di mostrare tenerezza verso il dolore e che questa venga vista come pena, porta spesso all’allontanamento. Così la madre si isola, il padre viene escluso, gli amici si allontanano e la sensazione di vuoto si allarga. Il baratro diventa profondissimo e tu sprofondi dentro. Vorresti morire, spegnerti, lasciarti andare. Lotti con il tuo corpo che conserva l’istinto di sopravvivenza. Lotti con la convinzione che resterai per sempre infelice. Il corpo si irrigidisce, il dolore diventa anche fisico. Ti guardi allo specchio e non sai più chi sei. Vedi una persona che non sei tu, ma che sai ti accompagnerà da ora in poi. Non ricordi l’ultima volta che hai respirato, o forse sì, è l’ultima volta che hai visto tuo figlio. Nell’ecografia o mentre dormiva nel suo lettino, all’interno di un’incubatrice o sul monitor dell’ospedale. Dopo non hai respirato più. Lui non c’è più e una parte di te si è seppellita insieme a lui.
Lo hai sognato, immaginato, amato, sentito, visto, portato, nutrito. E poi non c’era più. Anche il tuo compagno lo ha sognato, immaginato, amato, sentito e visto. Lo ha portato con te prendendosi cura di voi, lo ha nutrito nutrendo te. Anche lui ha perso tanto. Anche lui vive l’ingiustizia. Si era visto padre, sognato situazioni, vissuto emozioni. Lo ha immaginato al mare, la sua prima volta sulla sabbia e l’acqua fredda; quando gli avrebbe insegnato ad andare in bicicletta o lo avrebbe guardato dormire beato pensando che fosse la cosa più bella che avesse mai visto. Avete perso insieme la partita più grande della vostra vita, state vicini. Non vi perdete anche voi. E non illudetevi. Non ascoltate i consigli maldestri di chi per consolarvi vi dice di farne un altro che poi passa. Non passa. Non passa mai. E se non elaborate questo dolore, se non lo rendete più dolce, più sopportabile, vi lascerà a terra o peggio ancora, lo trasporterete in modi diversi sul figlio o la figlia che arriveranno dopo la sua morte. Abbiate cura di voi e sappiate che non siete soli.
CiaoLapo Onlus è un organizzazione che si occupa di lutto perinatale e di accompagnamento e sostegno psicologico a chi affronta la dolorosa esperienza della morte del proprio bambino in gravidanza e nei primi mesi di vita. Sicuramente ci saranno altre organizzazioni di sostegno al lutto perinatale, io conosco loro, per questo mi sento di pubblicarne il nome.
Potrebbero esistere anche gruppi di autosostegno gestiti ed organizzati da chi ha subito questa perdita. Fate una ricerca nella vostra zona. Ci sono molte più persone di quante crediamo all’interno di questo burrone.
Per concludere vi lascio una riflessione personale che per me è stata di grande aiuto, ciò che mi ha permesso di andare avanti: partorire o far continuare a vivere la mia bambina, anche se in un modo diverso. Questo mi ha salvata. Nel mio caso mia figlia è nata con un progetto di un centro polifunzionale per il bambino e la famiglia chiamato Il Mondo di Anya 💚. Ci sono milioni di modi per far nascere e vivere un bambino. Scegliete la vostra strada. In qualche modo così ristabilirete i posti a tavola al pranzo di Natale in famiglia. Un abbraccio a tutti voi! Manuela