IL MANTELLO PERBENISTA DEL “PER IL BENE DEI FIGLI”

La separazione dei genitori è ormai un elemento comune a molti bambini. Purtroppo però sono ancora poche le volte in cui padre e madre riescono ad accordarsi e ad affrontare la situazione nel migliore dei modi per “il bene dei figli”.
Ma qual è il bene dei figli? Chi lo stabilisce?
Ogni essere umano è unico ed inimitabile, nella buona e nella cattiva sorte. Questo, è evidente, porta ognuno di noi ad avere dei bisogni diversi gli uni dagli altri. Ciò comporta un contrasto chiaro con i criteri che si reiterano da secoli in tema di separazioni.

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Alcuni miti da sfatare che si verificano ancora troppo spesso:
1.”Il bene dei bambini è stare con la mamma” per quale motivo? Chi stabilisce che un genitore, solo in quanto donna, sia più adatto a prendersi cura di un bambino in tutta la sua complessità? Non sono forse le inclinazioni naturali, la visione del mondo, l’impegno costante, le competenze emotive, a dover illuminare certe decisioni?
2.“Il bene dei bambini è la bi-genitorialità” ma davvero riteniamo che alcuni soggetti, senza sostegno alcuno, possano essere genitori consapevoli di ciò che stanno facendo? Persone violente, con dipendenze di ogni sorta, che non si prendono nemmeno cura di se stesse? E questo indipendentemente dal sesso. Uomo o donna non fa differenza. Ci sono madri che dichiarano apertamente di non aver voluto  i figli, ma poi, pur di apparire buone e socialmente adeguate, si giocano la carta del tribunale contro i padri. Ci sono padri che non conoscono nemmeno le allergie gravi dei figli, ma che si dichiarano padri presenti e attenti ai propri bambini. Non tutti sono in grado di fare i genitori. Non possiamo pensare che basti mettere al mondo una creatura per diventarlo. E obbligare qualcuno a farlo non è una scelta che comporta benefici effettivi, né per i genitori, né tantomeno per i figli.

Che il bene dei figli sia rimanere solo con il papà non l’ho mai sentito dire, forse perché gli uomini sono più umili sotto certi aspetti e non pensano di poter fare tutto loro. Da sempre sono considerati il genitore numero 2, quello non così indispensabile. Spesso le madri si ergono ad esseri superiori, ma indossando il mantello del martire ” lo faccio perché sono capace solo io, mannaggia a te che sei un incapace” o “se non lo faccio io chi lo fa?” Di fatto si mettono da sole nella condizione del monogenitore nonostante siano ancora in coppia. Avvenuta la separazione mantengono il ruolo e l’ex ha due vie: o tentare di costruire un rapporto paritario rispetto ai figli, o mantenere anche lui il suo ruolo da padre assente . Dove stia la verità è spesso molto difficile capirlo,perché le versioni discostano sotto molti aspetti.

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Le storie di oggi sono piene di donne vittime dei propri ex mariti o compagni e tanti sono stati i segnali precedentemente, ma nessuno se n’é voluto occupare. È aberrante e inaccettabile.
Mi domando allo stesso tempo quanti uomini ci siano, vittime emotive di donne che si credono il creatore. Che si arrogano il diritto di scegliere a discapito di un rapporto padre/figli, coprendolo anche con il mantello del “bene per i figli”.
L’unico tassello univoco a tutti è che il bene per i figli sarebbe poter avere dei genitori che li amino, indipendentemente dai rapporti tra loro; che non si facciano la guerra pensando che eliminare l’altro (ritenuto inadeguato) sia “il bene dei figli”.
La manipolazione della realtà a proprio vantaggio, la cecità di fronte a palesi reazioni dei figli che indicano che si sta andando nella direzione sbagliata, magari accompagnati dalla nuova compagna/o, è un modello usuale ai più, durante e dopo la separazione. Non si vedono più, davvero, i propri figli, ma si vede ciò che si vuole vedere. Si pensa che se la situazione fa vivere bene noi, sia certamente così anche per i figli. E mentre loro si arrabattano con strategie di sopravvivenza più o meno evidenti, noi li vogliamo vedere felici, per cui questa sarà la storia che racconteremo a noi stessi e agli altri.

L’altro genitore viene dipinto come assente, immaturo e inadeguato ( padre); poco di buono, pazza ed esagerata (madre). Il risultato sta nel mezzo, dove troviamo figli che non sanno schierarsi, che se lo fanno si sentono colpevoli e che spesso, molto spesso, non vengono creduti. Se uno dei due genitori dice all’altro: “il bambino mi ha detto che… ” si viene subito accusati di essere bugiardi, se non addirittura di alienazione. Ci si ritrova così a dover abbozzare per quieto vivere, a sentirsi dei genitori inadeguati perché non possiamo sostenere il nostro bambino, o a fare la guerra pur di ottenere ciò che riteniamo giusto per i nostri figli.


Come uscire dunque da questo tunnel? Come comprendere quando stiamo realmente vedendo la realtà e quando invece indossiamo lo sguardo del nostro benessere come filtro?
1) Tuo figlio ti dice che dall’altro genitore fa qualcosa che non gli piace fare. Invece di sentirti in colpa o prendere di petto la situazione, senza sapere dove ti porterà, lavora con tuo figlio affinché piano piano possa prendere coraggio e dire al genitore in questione di che cosa avrebbe bisogno. Come fare? Rimandando al bambino che con l’altro genitore può parlare, che sarà pronto ad ascoltarlo, che la sua opinione è importante; oppure provare le strategie del problem solving cercando delle possibili alternative da mettere in atto. Fate una bella lista, con tutte le idee che vi vengono in mente (genitore e figlio), poi rileggetela e spuntate le idee che non sono attuabili. Arriverete a trovare delle soluzioni insieme, mostrando al bambino una strategia efficace di risoluzione dei conflitti, che interiorizzerà nel tempo e potrà far parte del suo bagaglio comunicativo.
2) Vostro figlio vorrebbe stare di più con voi che con l’altro genitore.
Analizzate con calma la situazione. Domandate a vostro figlio che cosa fate (o siete) che lo rende più felice quando siete insieme. Senza accusare l’altro genitore o sminuire le sensazioni del bambino, parlate insieme dei suoi bisogni. Ascoltateli. Provate a rimandare l’emozione che secondo voi provano,  per verificare se avete ben compreso. A questo punto domandatevi quale emozione scaturisce in voi tutto questo. Riguardate i bisogni del bambino e i vostri. Se riuscite, con empatia, provate a spiegare al bambino, perché in quel momento non è possibile soddisfare quel bisogno. Se sapete già che potrà essere soddisfatto, date loro una scadenza. Se vi sentite impotenti, abbracciatelo. Capirà.
3) Temete che l’altro genitore possa mettervi contro i figli.
I figli amano i loro genitori. Indipendentemente da come questi si comportino con loro. Che siano affettuosi e attenti o violenti e assenti, loro li amano comunque. E cercheranno sempre di renderli felici. Anche quando sembra che facciano di tutto per ferirli , in realtà ricoprono il ruolo che gli è stato assegnato. Vogliono dare ragione al genitore, pensando che così sia felice. I bambini vogliono il bene dei loro genitori, alle volte più di quanto i genitori vogliano il bene dei figli.
Quando un genitore parla male dell’altro con i figli, potrebbe ottenere un iniziale rapporto conflittuale tra i due, ma esso si risolverà in tempi brevi se quello che è stato riferito non è la verità. I bambini sono piccoli, non stupidi. Sentono il bene e ne sono affamati.
Si può cadere però anche nel lato opposto. Ovvero… Il genitore dice la verità e il bambino lo prende per bugiardo e non gli crede. Anche in questo caso, il bambino mostra l’amore verso il genitore che secondo lui è più fragile. Per cui si può ottenere come risvolto un maggior attaccamento.
Per evitare tutto questo, è necessario,seppur complesso alle volte, che ogni genitore pensi al proprio rapporto con il figlio, senza intromettersi nelle dinamiche con l’altro. Soltanto così il bambino sarà libero di osservare con i propri occhi, di farsi una sua opinione e di manifestare i suoi stati d’animo senza influenza alcuna. Ci si sente impotenti nel vedere la manipolazione e nel comprendere che è meglio supportare a lato ed eventualmente raccogliere i cocci, senza intervenire a gamba tesa. L’istinto ci porterebbe dall’altra parte, ma il rapporto con l’ex può influenzare la nostra visione delle cose.
4) Domandatevi se foste nei panni di vostro figlio come vi sentireste.
Chiedetevi che cosa sta provando, se corrisponde a come vi sentireste voi. Analizzate i conflitti che pensate stia vivendo e create con lui uno spazio di ascolto. Soltanto voi due. Apritevi a lui. Dedicategli del tempo vero. Dove la vostra attenzione non sia interrotta dal suono del cellulare, dalla televisione o dalle parole di un altro adulto.
5) Non rinnegate il passato.
Avete vissuto con il padre o la madre dei vostri figli per un certo tempo di vita. Avete condiviso gioie e dolori. Vi siete amati e magari anche odiati. Ma da quel rapporto sono nati i vostri figli, che meritano di sapere che i loro genitori si sono amati, che il rapporto è mutato, ma il rispetto resterà sempre. Hanno bisogno di saper e che in qualche modo, una parte di amore resterà per sempre. Altrimenti non crederanno più ai vostri “ti voglio bene”. Penseranno che sarà così finché non faranno qualcosa che vi farà arrabbiare davvero. E da lì, allora, odierete anche loro.
Dobbiamo dare loro l’assoluta certezza che il nostro amore per loro non passerà mai. Dobbiamo essere coerenti. Se passiamo dall’amore all’odio con facilità in rapporti importanti, è come se confermassimo loro che prima o poi li abbandoneremo, esattamente come abbiamo fatto nella relazione con l’altro genitore.

Non ci sono formule magiche per una “separazione serena”. I due termini insieme già suonano come una dicotomia.
Ma lo scopo di tutto questo è ricordarsi che non esiste “IL bene dei figli”; esiste l’idea che ognuno di noi ha rispetto a questo e l’unica legge che davvero dovremmo tenere a mente è quella di continuare a rispettarsi nonostante tutto e ad osservare i nostri figli, senza filtri attivi.
Questa è l’unica base per il vero bene dei figli. Da lì si può partire a costruire tutta la parte gestionale e organizzativa, tenendo presente le esigenze e i bisogni dei bambini, partendo dai loro sguardi. Ricordandosi che fare il genitore è un onore, non un peso. Per cui non siamo eroi se abbiamo un nucleo monogenitoriale o se stiamo con i nostri figli la maggior parte del tempo perché l’altro genitore è impossibilitato da eventi o da volontà. Noi siamo quelli fortunati. Quelli che possono godere di momenti importanti che non torneranno più. Non sentiamoci eroi e nemmeno martiri, vittime di uomini o donne latitanti che non ricoprono il loro ruolo. Sentiamoci grati per poter godere ogni giorno della presenza dei nostri figli, del loro amore e dei loro preziosi insegnamenti.

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Cari mamma e papà,
ho due anni e non capisco
come mai devo stare a volte lontano dal papà e a volte dalla mamma. Voi me lo avete spiegato, ma io non ho capito bene. Vorrei potermi addormentare ogni sera con la favola del papà e il bacio della mamma, vorrei potermi arrabbiare con uno e farmi consolare dall’altro per poi tornare ad abbracciarci tutti insieme.
Cari mamma e papà, ho 4 anni e sono arrabbiato. Vorrei non dovermi spostare da una casa all’altra in continuazione e poter dormire con voi nel lettone come facevamo prima. Vorrei non svegliarmi nel cuore della notte e chiamare papà senza che mi possa rispondere e vorrei poter abbracciare la mamma quando esco da scuola ogni giorno. Non voglio dover andare via dal papà quando stiamo giocando e non voglio lasciare la mamma quando sono stanco.
Non mi piace vivere così.
Cari mamma e papà ho 7 anni. Nella mia classe ci sono tanti bambini che hanno la mamma e il papà in due case diverse. Non mi sento speciale, mi sento solo triste e alle volte mi sento un peso. Tu, mamma, ti arrabbi se sto con te nel giorno in cui dovrei andare da papà, ma papà non può. E alle volte invece sento te, papà, che vorresti andare a sciare ma poi dici: ma devo stare con mio figlio. Vorrei non dover scegliere la domenica se stare dal papà o dalla mamma. Vorrei che foste voi a decidere perché per me è troppo difficile scegliere. Io voglio bene ad entrambi.
Cari mamma e papà ho 14 anni. Vi siete separati da tanto ma ancora vi sento parlare male l’uno dell’altra. A volte papà mi dice che sono come te, mamma, e ho capito che lo dice con un tono dispregiativo. Altre volte mamma mi dice che tu sei un egoista perché non rispetti gli impegni presi. Ma io lo so, papà, che tu se non vieni è perché hai un motivo valido, lo so che mi vuoi bene e che per te sono importante. Quando siamo insieme parliamo, stiamo insieme, ti dedichi a me.
Io lo so, mamma, che tu sei una donna forte e in gamba, che alle volte quando non mi vedi, quando sei incentrata su di te, non lo fai perché non mi vuoi bene, lo fai perché pensi di darmi un buon esempio prendendoti cura di te. Ed è vero mamma, in parte è così. Quando papà mi dice che sono come te, io non la prendo male, perché per me è un complimento.
Non sono più una bambina, ma mi domando come possano due persone amarsi tanto e poi farsi così del male per tanto tempo? Perché non la smettete? Farete così anche con me se non farò quello che volete voi?
Cari mamma e papà, ho 20 anni. Vi ringrazio per essere stati la mia mamma e il mio papà. Per aver dato ciò che siete riusciti a dare, perchè sono fiera di me stessa e questo è anche merito vostro. Ora sono in terapia per comprendere quali colpe ho avuto nella vostra storia. Spesso mi sono sentita usata per ferire l’altro, mi sono sentita di peso nelle vostre nuove vite. Devo costruirmi un modello d’amore che sia solo mio. Ho tanto lavoro da fare, tante domande a cui dare risposta, ma non sono più arrabbiata con voi. So che mi amate a modo vostro e che ora l’indifferenza tra voi ha concesso la pace. Gioirò il giorno in cui vi riconoscerete  nuovamente e saprete vedere la luce che c’è in ognuno di voi, la stessa luce che incontrandosi mi ha permesso di venire al mondo. Vi amo nonostante tutto e vi sono grata. 

N.B. Questo articolo si riferisce a casi di separazione che escludono violenze domestiche, psicologiche e fisiche. Esclude situazioni limite, siano esse dettate da forte conflittualità o da dipendenze di vario genere, dove la sola legge può intervenire per la salvaguardia della prole e degli stessi genitori.

La solitudine dei bambini

“Quando mi vedi solo, che gioco con un rametto, un filo d’erba o osservo le nuvole, non ti crucciare, non sono solo, sono con me stesso. Un me divertente, riflessivo, con cui mi piace stare. Non sono solo. Sto da solo. Non sono triste per questo, sono io che lo ricerco. E’ uno stare con me stesso che mi permette di ascoltarmi, di esplorare il mondo, di analizzare, sentire… “

Troppo spesso l’adulto presume che lo stare in disparte di un bambino all’interno di un gruppo sia indice di un problema. Difficoltà sociale od emotiva, ma in ogni caso, sintomo di un qualcosa che non va . In realtà, l’accezione negativa alla solitudine la diamo noi adulti e spesso in modo frettoloso parliamo di “asocialità”. Gli adulti spesso non sono in grado di stare con sè stessi e per questo hanno BISOGNO degli altri. Da questo paradigma culturale nascono le convinzioni che lo stare da soli, a prescindere dal fatto che sia o meno una libera scelta, non sia mai sinonimo di Ben-Essere, ma sempre di Mal-Essere.

Dice Wikipedia: “La solitudine è una condizione e un sentimento umano nei quali l’individuo si isola per scelta propria (se di indole solitaria), per vicende personali e accidentali di vita, o perché isolato o ostracizzato dagli altri esseri umani, generando un rapporto (non sempre) privilegiato con se stesso.” 

Riflettendo…. Se pensiamo a quando da ragazzi si instauravano quei legami di amicizia molto forti, in cui si viveva quasi in simbiosi, quando finivano o quando non ci si poteva vedere, come ci sentivamo? Persi. Disconnessi da noi stessi. Questo perchè si creava una sorta di DIPENDENZA AFFETTIVA, tipica nelle storie d’amore, dove il bisogno dell’altro genera una sofferenza tale da paragonarla alla disintossicazione. Pensate invece ora a quanto sia importante drogarsi di se stessi. Conoscersi a fondo, sperimentarsi, sentirsi. Cercare l’altro non per bisogno, ma per scelta, quanto deve essere liberatorio? Per noi e per l’altro. Alcuni bambini sono così naturalmente, senza interferenza alcuna. E cosa fa l’adulto? Lo crede sbagliato, lo etichetta, cerca di deviarlo per farlo entrare in relazione costante con i pari, pensando di aiutare il proprio bambino o alunno in realtà si crea un danno enorme.

Sicuramente è necessario partire dall’osservazione del bambino o della bambina. Quando si isola? Per quanto tempo? Quali emozioni trasmette il suo corpo? Com’è il suo viso? Se ci avviciniamo cosa prova? E’ assente o presente? Partecipa ad attività di gruppo? Come si relaziona con gli altri? Quali emozione esprime con maggiore frequenza? Piange? Ride? Gioca o sta fermo? Osserva gli altri o sta nel suo mondo interiore? Fantastica o resta su un piano reale? Gli altri lo cercano? Con l’adulto che relazione sviluppa? Queste e moltissime altre domande possono fare da sfondo all’occhio che osserva e dovranno essere rielaborate all’interno del contesto ambientale famigliare e scolastico in cui il bambino vive, prima di poter valutare se la solitudine di cui si accerchia sia utile al suo sano sviluppo o stia diventando un impedimento.

L’interesse di cui sono prede certi bambini, risulta essere troppo per garantirne uno sviluppo sereno. Se anni fa la problematica genitoriale più frequente riguardava il fatto che i bambini venissero lasciati a loro stessi, oggi affrontiamo la dinamica opposta: il bambino iper osservato e che se non rispetta la “tabella di marcia” che il genitore ritiene idonea, egli viene snaturato, defraudato della sua identità tramite il senso di colpa e l’inadeguatezza che legge negli occhi dell’adulto.

L’attenzione alla solitudine e allo spazio che ha nella vita dei bambini si è alzata sicuramente e necessariamente negli ultimi due anni. La pandemia da Covid-19 ha impedito i rapporti sociali, la permanenza a scuola, le visite ai famigliari. Ci ha isolati. Questo ha generato una forte pressione psicologica ed una accelerata ancor più importante verso l’equazione solitudine=malessere. Se c’è una cosa però che possiamo aver appreso in questo delicato periodo è anche la capacità di sentirsi vicini pur essendo fisicamente lontani. Questo significa che pur stando isolati, un filo che ci unisce lo abbiamo sempre, se lo desideriamo. Sta qui la grande ricerca della verità. La libera scelta di ognuno di noi e la comprensione nonchè accettazione e fiducia che l’adulto ha , del e nel , bambino che ha messo al mondo. Ogni bambino è competente. Sa quello che è meglio per lui, per il suo sviluppo. Restando con occhio rivelatore, poniamoci in ascolto, depuriamoci dalle equazioni impure e meditiamo sulle intenzioni e le percezioni. La realtà viene filtrata dal nostro vissuto, per cui più siamo liberi da preconcetti, più possiamo sostenere realmente la vita dei nostri bambini.

Nel metodo Montessori il lavoro singolo è necessario alla formazione dell’individuo che in quanto essere unico e irripetibile, ha esigenze del tutto personali che lo guidano alla ricerca dell’attività atta a soddisfare il periodo sensitivo che sta vivendo. L’adulto può avere il ruolo di facilitatore e sostenitore della vita che si sta formando, solo se ripone fiducia nel bambino, se riesce a vederlo senza i suoi filtri, così com’è, nella sua interezza ed unicità, rispettandone la natura, permettendogli di mostrare sia i talenti che le difficoltà, per alimentare gli uni e lavorare sulle altre. E’ dunque comprensibile ora l’importanza del lavorìo individuale, concentrato e personale del bambino, che sta apprendendo le fattezze del mondo, ne sperimenta le leggi, studia le combinazioni e si pone domande a cui, scientificamente, proverà a dare risposta se gliene viene data la possibilità.

immagine de “Il Mondo di Anya”

Pensate dunque se è così fondamentale la solitudine per apprendere ciò che è esterno a noi, quanto sia necessaria per sentire ciò che accade DENTRO di noi. Le emozioni, le sensazioni, i sentimenti, le domande, i dubbi, riconoscere i talenti, il proprio corpo e i suoi segnali. Vogliamo dunque noi intrometterci in questo magic moment tra il bambino e se stesso, pensando superficialmente che se non gioca sempre con qualcuno diventi asociale o sviluppi un’incapacità relazionale?

La riflessione nasce dunque spontanea e forse, la solitudine può iniziare ad essere vista anche come una forma di meditazione necessaria all’equilibrio e all’armonia con se stessi.

A LEZIONE DALLA LUMACA

Rivendicate la lentezza nel nostro mondo a tutto vapore, è un diritto delizioso di cui siamo stati privati. (Jean-Pierre Siméon)

In questa epoca digitale l’ imperativo categorico è : “tutto e subito”. Siamo diventati veloci : scrivere ed inviare una lettera, un messaggio, spostarci da una parte all’ altra della città, ordinare da mangiare e molto altro. Più sei veloce e più produci. Anche se diventa sempre più chiaro che il prezzo da pagare può rivelarsi alto in termini di qualità della vita.

I bambini vivono tra i due mondi : quello degli adulti sempre di corsa (e che spesso, troppo spesso non hanno tempo di giocare) e la loro natura lenta.

Il bambino ha tempi suoi, spesso molto diversi da quelli dei ‘grandi’, tempi che noi definiamo lenti ma che in realtà sarebbe meglio chiamare “tempi di processo”. La lentezza del bambino è essenziale per permettergli di accordare tutte quelle funzioni neurologiche, motorie, emotive e relazionali diventate ormai meccanismi automatici per l’ adulto, e che il bambino invece stà progressivamente creando dentro di sè.

Il livello di presenza nel qui e ora di un bambino impegnato in un attività è tale da poter escludere totalmente il mondo circostante, grazie alla ripetizione dell’attività si genera un automatismo col quale cambia anche il ritmo.Per questo si possono osservare bambini intenti allo stesso lavoro per ore o giorni in modalità quasi ipnotica.

L’ automatismo però non è solo limitato al ‘fare’ ma entra a gamba tesa anche nel mondo della relazione e dell’ essere : atteggiamenti, azioni e reazioni , modi di dire, gestualità, modalità di socializzare , perfino il modo di pensare perchè la nostra mente ha bisogno di ottimizzare il più possibile l’ energia dispersa nel processo.

I bambini, non avendo ancora totalmente automatizzato la loro maschera sociale ci stupiscono con effetti speciali, con la loro originalità, i loro filtri assenti e la loro capacità meditativa, e con altrettanta purezza rivelano l’ ambiente in cui sono immersi e del quale assorbono i processi.

Se vogliamo entrare davvero in comunione con un bambino, può essere molto utile imparare dalla lumaca : “la lentezza è la vera ricchezza.”

Pensiamo al tempo di cui abbiamo avuto bisogno già anche solo per poter essere parte del mondo oggi! Il tempo in cui la nostra mamma ci ha portati in grambo, il tempo necessario ad un albero di ricoprirsi di foglie e fiori dopo un lungo inverno, il tempo di cui abbiamo avuto bisogno per imparare a guidare o praticare uno sport, ed applichiamo tutto questo al tempo di cui il bambino ha bisogno per coordinare i processi neurologici con quelli motori con quelli della relazione uniti alle regole della societò in cui vive…Il tempo è davvero il più prezioso dei Valori e il più fedele degli alleati.

La lentezza aiuta la concentrazione ; un bambino che si stà vestendo da solo al mattino mentre la mamma o il papà bollono perchè rischiano di arrivare tardi a lavoro stà compiendo uno degli sforzi più grandi che si possano descrivere che avrà ripercussioni non solo sulla sua autonomia e autostima ma anche nella costruzione dei processi mentali che lo accompagneranno durante tutta la sua crescita. Poter dedicare del tempo ad un attività così complessa (per citarne una tra tante) sarebbe quindi un beneficio per tutti a lungo termine.

L’acqua che cade lentamente scava una roccia meglio di una cascata. (Proverbio latino)

Un simile meccanismo riguardante il tempo e la ‘produttività’ lo troviamo molto spesso anche nella scuola. Le classi numerose e un programma da seguire non consentono ad ogni bambino di rispettare la propria velocità, il proprio ritmo di apprendimento. Anzi vengono forniti parametri entro e fuori dai quali i bambini sono definiti “avanti o indietro”, il fattore del ritmo individuale di apprendimento difficilmente viene preso in considerazione, spesso per motivi pratici e organizzativi. Così ancora una volta il bambino sarà costretto ad adattarsi al mondo dei ‘ grandi’.

Se osserviamo un bambino lasciato libero di assolvere ad un compito, senza limiti di tempo, ci sembrerà di vedere davvero un maestro in meditazione. Esistono pratiche molto antiche, come ad esempio il Tai chi, il Qi Gong, Tandava o lo Yoga, che favoriscono il benessere psicofisico facendo del loro punto di forza proprio la lentezza; il procedere lento del corpo armonizza il respiro , placa la mente e reindirizza i pensieri. I processi mentali frettolosi saltano passaggi fondamentali che il corpo invece registra ; facendo il percorso inverso, quindi partendo dal corpo per arrivare alla mente, la quiete donata dalla lentezza favorisce anche la lucidità di pensiero, la capacità di prendere decisioni, l’ ascolto di sè e dell’ altro.

Invito a provare per credere proponendo una pratica che può fare chiunque appena possibile al primo pasto utile: prova a spostare telefonini o altri dispositivi (o distrazioni) in luoghi diversi dalla tavola, apparecchia con cura il tuo piatto, siediti e dedicati totalmente a quello che stai facendo, alla mano che impugna la forchetta, alla forchetta che raccoglie il cibo, alla bocca che soffia se è caldo, ai polmoni che prendono aria, al cibo che entra nella bocca, al gusto che cambia, alla mandibola, ai denti alla lingua coinvolti nella masticazione, alla gola che ingoia , alla pancia che si riempie. Nella lentezza è possibile sperimentare un modo diverso di mangiare. Ora prova a farlo immaginando di essere un bambino che pratica questo per le prime volte.

Se l’ esercizio ti è piaciuto invito a sperimentarlo in altri campi della vita pratica o dello studio.

Prendersi tempo è un regalo prezioso. Se la lentezza porta beneficio ad un adulto gia ‘finito’ (anche se non lo siamo mai) immaginiamo quanto possa sostenere un bambino che muove i primi passi nel mondo.

Comunità e identità : il bambino diventa i modelli che vede.

Questo è il nostro obbligo nei confronti del bambino: dargli un raggio di luce, e seguire il nostro cammino.”

Maria Montessori esprime in questo modo, sintetico e chiaro, ciò che accade durante il processo di costruzione dell’ identità e del ruolo chiave della comunità adulta intorno al bambino.

Sottolineando l’ importanza dell’ ambiente fisico, emotivo e relazionale in cui il bambino è immerso, vediamo nel quotidiano come i bambini sembrino “caricature” degli adulti che li circondano. Ne imitano gesti, parole e frasi, spesso senza ancora conoscerne contesto e significato, non solo durante il gioco simbolico ma anche e soprattutto nel loro modo di essere nel mondo (e di relazionarsi con esso).

Come per tutti i nuovi nati, per orientarsi nello spazio e nella società i piccoli seguono i grandi, soprattutto (e prima di tutto) ciò che i grandi fanno, al di là delle posizioni etiche e morali di giusto e sbagliato (concetti anche questi presi dall’ ambiente adulto).

“Ciò che siamo insegna ai bambini molto più di ciò che diciamo, ecco perché bisognerebbe essere ciò che vogliamo che i nostri bambini diventino.” J. Pearce

Nel corso del tempo stiamo assistendo a numerosi cambiamenti degli assetti sociali. Fino a oltre la metà del 900 i bambini nati da un nucleo famigliare erano i bambini di tutti, venivano cresciuti dagli adulti della comunità, che essi fossero imparentati oppure no, l’ educazione e l’esempio passavano oltre che dai genitori, anche da nonni, zii, cugini, vicini di casa, passavano dal quartiere, dalle botteghe, dagli anziani, dai bambini più grandi e, non ultimo, dalla scuola, l’ influenza dei media era ancora marginale e sicuramente meno persuasiva rispetto alla vita reale.

Ad oggi le famiglie stanno diventando nuclei piuttosto isolati, fatto salvo per i fortunati che possono vivere i benefici del grandissimo aiuto dei nonni, la maggior parte del carico educativo lo sostengono i genitori, la scuola e , per chi lo pratica, lo sport.

Mamme e papà si ritrovano spesso soli sotto vari fronti :economico, sociale, relazionale o puramente gestionale. Si sentono sempre più spesso frasi come “non è mica figlio mio” oppure “belli i bambini purchè se li tengano i genitori” , “sono io il genitore e solo io sò quello che è giusto per mio figlio” , “cosa penseranno di me se lascio mio figlio a ….” , “non posso chiedere aiuto perchè altrimenti penseranno che non sono capace di gestire mio figlio” ecc.

Questa solitudine a volte è subita e altre è ricercata, come a voler proteggere il figlio da un mondo esterno che, presto o tardi incontrerà comunque e col quale dovrà avere a che fare ,con a disposizione più strumenti possibili per vivere una vita piena ed esprimere tutta la sua meraviglia (oltre alla pura sopravvivenza).

Anche rispetto alle figure educative “esterne” si è creata sempre più distanza, spesso vengono intraprese vere e proprie battaglie egoiche tra educatori e genitori, tra scienza e coscienza, che vogliono dimostrare di “saperne di più” ,uno rispetto all’altro, dimentichi purtroppo della loro alleanza e dimenticando di essere persone prima ancora che ruoli, persone che dovrebbero guardare ad un punto comune che è il benessere del bambino.

Questa cerchia sempre più chiusa crea un limitato numero di Modelli a disposizione del bambino e la spinta del giovane alla ricerca di integrazione attraverso mezzi alternativi (guardiamo quanta capacità di persuasione hanno gli influencer o i social media in generale). I giovani si ritrovano sempre più isolati e insicuri, spesso passivi. Dall’ altra parte gli stimoli che arrivano dal virtuale rischiano di diventare talmente tanti da non essere più in grado di scegliere cosa sia costruttivo e cosa no.

Senza la volontà attiva di esprimere se stessi, di portare il loro valore aggiunto nel mondo, i bambini rischiano di diventare passivamente quello che l’ ambiente intorno chiede loro di essere. Senza qualcuno che li ispiri, che li aiuti ad alimentare il loro fuoco, il desiderio, la curiosità, rischiano di prendere il male minore, la direzione dei ‘molti’, qualunque essa sia, oppure diventare la copia sputata dei loro genitori, doti e qualità ma anche drammi e sofferenze.

Non sono solo i bambini a crescere. Anche i genitori lo fanno. Così come noi guardiamo cosa fanno i nostri figli delle loro vite, loro guardano noi per vedere cosa facciamo delle nostre. Non posso dire ai miei figli di cercare di raggiungere il sole. Tutto ciò che posso fare è raggiungerlo, io stesso.” Joyce Maynar

Per esprimere la sua Unicità il bambino ha bisogno del contesto adatto alla fioritura, vario e il più possibile positivo alla sua crescita fisica, mentale, spirituale. Diversificare gli esempi da seguire può aiutare ad orientarsi meglio nella realtà (anche quella interiore) ma attenzione, l’ accesso alle nuove tecnologie può aprire ad un eccesso di stimoli, per questo è importante entrare nel mondo del bambino e del ragazzo , vedere dove si stà dirigendo, chi guarda, chi ammira e perchè. Le canzoni che ascolta, le immagini che vede entrano a far parte del suo ambiente e contribuisce alla formazione della sua identità.

” Non tocca a noi dominare tutte le maree del mondo; il nostro compito è di fare il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo, sradicando il male dai campi che conosciamo, al fine di lasciare a coloro che verranno dopo terra sana e pulita da coltivare.” Il Signore degli Anelli

La comunità, che ha come punto centrale il bambino, si stà occcupando contemporaneamente del suo presente e del suo futuro. Un adulto che si occupa del suo benessere, di Essere la migliore versione di se stesso, stà insegnando la stessa cosa al bambino e stà contribuendo al benessere della comunità intera.

Maria Rosa Iacco


Sotto giudizio, come un genitore.

Quando nasce un bambino nascono anche una mamma ed un papà.

Prima di allora due persone sono ‘solo’ un uomo e una donna, con vari ruoli nella società a far parte della loro identità. Un figlio segna un ‘prima’ e un ‘dopo’ nella vita di una persona ; prima, per quanto possa essersi preparata a livello teorico, per quanto possa aver praticato con i figli degli altri , per quanto possa aver cercato nei libri, per quanto possa prendere o non prendere spunto dalla propria storia famigliare non sarà mai come il dopo. Nel bene e nel male le aspettative sono ben lontane dalla realtà, che sia il primo, il secondo o il quarto figlio.

Quando nascono una mamma e un papà (molto probabilmente anche prima) , nasce un giudice, rigido, implacabile e persistente, anzi molti.

Il primo, ed il più crudele è quello interiore : sarò una buona madre? sarò in grado di fare il padre? Saprò ascoltare i bisogni di mio figlio? Sarò in grado di dargli una buona educazione? Saprò comportarmi da buon genitore? Starò facendo la cosa giusta? Sarò all’ altezza? E milioni di domande simili che occupano la mente del genitore, minando costantemente l’ autostima e l’ operato quotidiano.

Gli altri sono i giudici esterni, i nonni, i fratelli, gli zii, i cugini, gli infermieri, i medici, gli amici, gli insegnanti, l’ istruttore di nuoto, di cavallo, di calcio, di danza, la signora del piano di sotto, la conoscente del palazzo di fronte e via dicendo…

Persone che, più o meno esplicitamente esprimono giudizi sull’ educazione (prettamente) o sullo stile di vita di una famiglia facendo per lo più paragoni o basandosi su ‘come dovrebbe essere’.

Il paragone è uno strumento per distinguere la critica costruttiva dal giudizio.

Chiaramente un esterno alla famiglia gode del privilegio, quando usato con coscienza e spirito di supporto, di poter osservare eventuali dinamiche o situazioni che dall’ interno si fatica a notare e questo è un vantaggio che può avviare circoli virtuosi di cambiamento, grazie al dialogo empatico e alla critica costruttiva.

Diverso è invece il giudizio espresso, come dicevamo, da un termine di paragone, di ‘meglio’ e ‘peggio’, di ‘si fa e non si fa’, ‘al suo posto avrei fatto’, ecc… giudizio o parere che spesso non è richiesto, che è parte del chiacchiericcio e non ha alcuna finalità di supporto alla famiglia. Questo ‘tribunale’ si va poi ad accompagnare al già proficuo dialogo interiore del genitore, innestando bombe di insicurezza e inadeguatezza che, di fatto, creano un gran caos.

Non esiste un ‘Manuale per la famiglia perfetta’, e se anche esistesse, spunterebbero sicuramente uno o più dissidenti.

Non esiste la famiglia perfetta in senso ideale, esistono famiglie guidate dall’ amore e famiglie in cui l’ amore bisogna proprio andarlo a stanare.

Puoi aver allattato tuo figlio al seno fino al sesto anno, avergli insegnato tutti gli sport del mondo, averlo iscritto alla migliore scuola della città, puoi avergli dato da mangiare cibo super biologico, puoi non averlo sgritato mai, usato tutte le tecniche possibili di educazione, e non necessariamente tutto questo fa di te un buon genitore.

Ogni bambino è un individuo unico e ciò che ha funzionato con un altro bambino in un altra famiglia (o anche con il fratello o la sorella più grande), potrebbe non funzionare con quel bambino in quel dato momento della sua crescita, in quello specifico momento della vita famigliare e in quella data predisposizione dell’ adulto.

Educare è un processo dinamico e mai unilaterale, è crescere insieme.

Posti alcuni pricipi di base specifici e scientifici rispetto alle fasi evolutive del bambino che possono rappresentare delle linee guida generali a cui fare riferimento in modo, appunto, generale, nello specifico di ogni situazione ciò che serve è il buon senso, un grande spirito di osservazione che permette di connettersi ai bisogni di quel momento specifico del bambino e molto molto Amore.

In una famiglia in cui regnano l’ attenzione ai bisogni fisici/evolutivi ma anche emotivi del bambino, l’ osservazione critica , il buon senso e l’ Amore (ultimo ma non ultimo chiaramente) quasi certamente possiamo trovare bambini e genitori felici, e non sarà poi così importante se la casa è in ordine, se i genitori sono insieme o separati, se il bambino non va a letto tutte le sere alle 9, se non mangia biologico, se è stato o non è stato allattato al seno eccetera eccetera.

Ai genitori dico questo, ci sarà sempre qualcuno pronto a proporvi un miglior metodo, un consiglio non richiesto o una critica per le vostre scelte educative, valutate sempre attentamente la fonte di queste critiche e soprattutto il fine ultimo.

State facendo il meglio che potete, nel momento in cui vi trovate, con quello che avete? Allora state facendo un ottimo lavoro ! Chiedete aiuto quando vi sentite in un vicolo cieco, questo può facilitarvi un pochino il compito ma sappiate che vostro figlio , vostra figlia vi amano immensamente a prescindere ( vi amano anche quando sembrano odiarvi, soprattutto durante l’ adolescenza, anzi, quello è il momento in cui hanno più bisogno del vostro silenzioso ma incrollabile Amore).

Vi dico anche che l’ amore non è nell’ evitare ai vostri figli le difficoltà della vita, di vario genere, dalla condizione economica alle separazioni, dalle famiglie allargate ai brutti voti a scuola, dalla frustrazione del no alle prime delusioni d’ amore, quelle le affronteranno comunque presto o tardi : prima imparano a trovare dentro di loro le risorse per affrontarle meglio sarà per la loro crescita.

Ascolate sempre ciò che vi sembra giusto fare , nel vostro profondo lo sapete, siate connessi a quell’ istinto animale che purtroppo abbiamo un pò perduto in onore del ‘ si è sempre fatto così’ oppure ‘tizia o caio hanno fatto così‘ e soprattutto connettetevi a vostro figlio meglio di un qualunque wifi esistente al mondo. Non mettetevi a paragone con nessuno, vostro figlio è unico e lo siete anche voi.

Buon cammino insieme ai vostri amati figli.

Le Donne sono Inferiori, gli Uomini non possono piangere: l’Identità Rubata.

Le differenze di genere fanno parte, culturalmente, di ognuno di noi, ma non solo… biologicamente siamo sicuramente diversi, ma come diverso è qualunque altro individuo rispetto a noi. Sono state instaurate però convenzioni sociali che limitano l’individualità, ci inscatolano in recinti prestabiliti da altri e se si tenta di uscire, si viene tacciati di essere “strani”. Tutto ciò che non è riconosciuto nei parametri stabiliti da chissà chi nel corso della storia viene bandito, additato come “non normale”. Un libro che ho apprezzato moltissimo sull’argomento è “Viola e il Blu” di Matteo Bussola e vi invito a leggerlo con i vostri bambini e nelle scuole, perché dà spazio a domande e riflessioni profonde su ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere. Viola è una bambina a cui piace il Blu, ma già alla sua giovane età, si accorge di come questo sia un problema, o meglio, la punta di un iceberg di “problemi” sull’identità di genere in cui ci vogliono inscatolare. Siccome sei femmina ti deve piacere il rosa, non puoi fare determinati sport, mentre se sei maschio non puoi piangere, non puoi lavorare meno di tua moglie e stare di più con i tuoi figli e figlie , e via via con “piccole” e grandi questioni, a cui il suo papà tenta di dare una risposta o di porre l’attenzione su come queste privazioni e predefinizioni di ciò che dovremmo essere ci fanno sentire. Un libro dalle parole semplici, ma profondissime, un testo da portare nelle case e nelle scuole, affinché si possa sdoganare la vera libertà di essere, indipendentemente dal genere a cui si appartiene.

Riprendendo il concetto iniziale, è certamente vero che a livello biologico siamo diversi e tutti i maschi hanno determinate caratteristiche fisiche e tutte le femmine ne hanno altre. Ci sono studi che riportano come anche i due cervelli siano formati in modo differente. Ma se prendiamo due donne o due uomini o due bambini o due bambine, troveremo comunque delle diversità, pur appartenendo allo stesso genere. Dove sta dunque la difficoltà nel comprendere, consapevolizzare e di conseguenza attuare e passare messaggi di libertà di individualità indipendentemente dal genere di appartenenza? La questione parrebbe semplice, gli studi ci sono, gli psicologi mostrano i loro pareri contrari a queste forme di restrizioni e recriminazioni, ma ancora una grossa fetta di popolazione continua a muoversi in questa direzione convinta che sia quella giusta. Ma osserviamoli i bambini e le bambine.Non facciamoci trascinare da bende invisibili che ci coprono gli occhi e trattengono le emozioni. Mostriamo loro che un uomo può piangere e che in questo modo evidenzia la sua umanità, non la fragilità, che se sta con i suoi figli e figlie non fa il “mammo” e non “aiuta la mamma” perchè quelli sono anche figlie e figli suoi e c’è un termine ben preciso che lo definisce: Papà.

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Ci sono memorie cellulari antichissime che il cervello rettiliano conserva e che supportano le azioni per la sopravvivenza, ma il cervello si è evoluto e ci sono altre parti che lo completano e lo rendono in grado di discernere ciò che sente e portarlo alla luce. Non saremo mai veramente liberi finchè non ci affrancheremo da queste convenzioni sociali che ingabbiano l’individuo e lo incasellano secondo un regime preciso. Le donne sono spesso viste come incapaci o elementi meno produttivi rispetto agli uomini. Le menti ottuse e barbariche continuano a perpetuare questo pensiero anche nei bambini. Ma se li osservate i bambini e le bambine , non ragionano per categorie. Un loro compagno si fa male o ha un momento di scoramento, loro non guardano se è maschio o femmina, si avvicinano, chiedono cosa è successo, si preoccupano sinceramente della persona che è in difficoltà in quel momento. L’Umanità. Tutta. Quella intera. Questo è l’insieme. Esiste un termine che ci comprende tutti ed è questo,UMANITA’, senza distinzioni di sesso, età, razza. Tanti sono i dogmi da abbattere e combattere, tante le limitazioni subite da entrambi i generi senza un reale motivo. Una presa di posizione surreale, ma talmente radicata da continuare a mietere vittime. Quante persone vivono il dramma del sentirsi sbagliate, che non vengono accettate per ciò che desiderano essere e questo “solo” perché non rientrano nelle categorie prestabilite. Genitori che rifiutano i figli e le figlie perché difformi da ciò che la società gli ha fatto credere essere la normalità. Figli e figlie affamati di accettazione, bramosi d’affetto, che ricevono abbandono e insulti per aver tentato di essere se stessi. Si pensa che i genitori amino sempre i propri figli, un’altra regola non scritta della società, considerata come “normalità”.

Che cos’è la normalità? Da cosa è data?

“E’ definita normale una condizione che si ripete in modo regolare e consueto, non eccezionale o casuale o patologico, con riferimento sia al modo di vivere, di agire, o allo stato di salute fisica o psichica di un individuo, sia a manifestazioni del mondo fisico, sia a situazioni (politiche, sociali ecc) più generali.” Treccani.

Dunque se tutti uscissimo per strada nudi per più giorni questa sarebbe considerata normalità e il non poterlo fare è dato solo dal fatto che nessuno lo ha mai sperimentato prima, per più giorni e in più persone. Ma pensate a cosa sarebbe il mondo oggi se nessuno fosse mai uscito dal recinto della “normalità”… Ci saremmo evoluti? Saremmo andati sulla Luna? Ci sarebbero state ribellioni e rivoluzioni, nuove invenzioni? Pensiamo alle donne che non potevano nemmeno pensare di laurearsi, o agli uomini che non potevano decidere di dedicarsi ai propri figli. Suonano come note stonate di un pianoforte non accordato, ma non parliamo poi di molto tempo fa e in certe parti del mondo ancora le cose stanno così, per citare forse piccole ingiustizie se si pensa ad altre atrocità inferte soltanto per il genere a cui si appartiene.

L’essere umano è Uno. Ci sono poi distinzioni di genere, razza, età, colori, ma è SEMPRE definito ESSERE UMANO.

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Riflettendo sugli spunti del libro con le mie bambine, ci si domandava proprio perchè, in lingua italiana, il plurale di un gruppo misto sia sempre definito al maschile. Un’altra convenzione stabilita da chissà quali intenzioni e finita per essere la “normalità”. Ma è davvero così “normale”? E soprattutto, è equo?

Ciò che spero sempre di passare ai bambini è l’idea che esistono pensieri propri che vanno tutelati. Osservare la realtà con pensiero critico e divergente permette di sviluppare innovazione. Non è detto che siccome “si è sempre fatto così” sia la cosa “giusta”. Se in un gruppo di 20 persone parla solo e sempre uno, le decisioni sono in mano a lui ecc, il gruppo non avanzerà più di tanto, perchè le idee rimarranno le stesse e non permettono di evolvere. La forza di un gruppo è invece la moltitudine di pensieri ed esperienze che ogni componente può portare per aiutare e sostenere la crescita del gruppo stesso.

Siamo ciò che siamo, donne o uomini, ma abbiamo il grande immenso compito di riconoscerci in un unico genere, l’Umanità, e trasmetterlo ai nostri bambini. RIBELLIONE significa Ritornare al Bello. Concediamo ai nostri bambini la speranza di un mondo migliore. Siate fautori di questa grande RI-BELLIONE!

Manuela Griso

Il Troppo Stroppia?

Donare è una delle massime espressioni d’amore. Significa “dare con assoluta spontaneità, liberalità, disinteresse” , si utilizza anche per significare “far trapiantare un proprio organo ad un’altra persona”. C’è qualcosa di più prezioso e solenne?
E’ Natale e il dono rappresenta il gesto d’affetto che consacra l’unione in questo determinato giorno. Molti considerano il Natale come Nascita, alla quale si porta in dono qualcosa per dare il benvenuto alla nuova vita. Con il tempo il dono a Natale è diventato più consumistico che di valore effettivo/affettivo. Tant’è che si offre un dono spesso senza intenzione, senza trasporto, senza averlo scelto con cura, ma per il solo senso del dovere.

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La riflessione che voglio porre in alto però è questa: il troppo, stroppia? Dare giusto valore alle cose, apprezzare ciò che si ha, trattare con cura, gioire delle cose più semplici si confanno al riempimento di un baule già traboccante? Offrendo 10 regali, quanti se ne apprezzano sul serio? Quanti verranno abbandonati o dimenticati nell’arco di qualche giorno? Quanti verranno trattati con la giusta cura? Siamo nell’epoca smart, dove tutto è a portata di click e dove il low cost ha portato il vantaggio di essere accessibile ai più, ma lo svantaggio del non essere più merce rara e dunque preziosa. I genitori, spesso super impegnati con il lavoro, possono comprare ai figli quasi tutto. L’asticella del desiderio-soddisfazione dello stesso= felicità viene alzata sempre di più e nei primi 10-12 anni(ad essere ottimisti)del bambino, il genitore raggiunge il suo livello massimo, ma a quel punto il figlio lo avrà alzato ulteriormente e inizia il calvario di entrambi. Il genitore si lamenterà di avere un figlio che non è mai contento e il figlio penserà di aver perso l’amore del genitore perchè non soddisfa più i suoi desideri.
E la cosa triste è che entrambi avranno in un qualche modo ragione. Il figlio sarà davvero eternamente insoddisfatto, vorrà sempre di più, non apprezzerà ciò che possiede e si ritroverà ad essere infelice. Il genitore avendo misurato l’amore verso il figlio attraverso doni materiali, penserà di non essere in grado di amare. Quante volte capita ai genitori di sentirsi in colpa verso i figli? Di sentirsi responsabili della loro infelicità? Quante volte si pensa che senza quel determinato paio di scarpe ne faremo un reietto confinato in un ghetto? 

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In questa società che punta a monetizzare qualsiasi cosa, anche i sentimenti, dobbiamo resistere alla tentazione dell’equazione proposta dalle pubblicità “compralo e sarai felice”, perchè si tratta di mera illusione, di falsità. La felicità a cui aspirano i venditori è effimera, superficiale, volatile. E’ invece un sentire molto più alto e profondo quello a cui punta lo spirito umano, non può essere acquistato.
Domandiamoci dunque quando stiamo donando davvero e quando invece tentiamo di riempire un vuoto.Con  oggetti, ma anche emozioni.

Chiediamoci quando è TROPPO. Esso, come il suo contrario, è ALTAMENTE PERICOLOSO. Ci spinge nell’esatta posizione opposta a ciò che vorremmo ottenere. Puntiamo alla felicità, ma donando troppo cadremo nell’insoddisfazione.

Parlo di cose materiali, ma anche d’altro, per esempio le troppe attenzioni (si spinge l’altro a credere di essere l’unico per noi, ad essere dipendente da noi) o il troppo tempo (non si lascia spazio alla noia, al tempo per se stessi, prezioso per comprendersi e conoscersi). Quando si ha troppo, si tende a darlo per scontato, l’interesse cala e si chiede di più. Ma come si suol dire “non c’è mai limite al peggio”, non c’è limite nemmeno al meglio (nell’immaginario umano). Per questo, soprattutto i genitori, devono porsi dubbi e domande sul donare troppo. La nostra personale definizione di FELICITA’ e di BISOGNO sono la base da cui partire. Che cos’è un Bisogno? Che cos’è, per me, la felicità? Conosco i miei bisogni? Porre l’attenzione sugli attimi di felicità che viviamo, goderne appieno e comprendere da cosa nascono. Porre la stessa rigorosa attenzione sui nostri bisogni, comprendere da dove nascono, prendercene cura. Quando abbiamo riflettuto su questo, possiamo tentare di farlo per e con i nostri figli (se l’età ce lo consente), altrimenti sarebbe bene rimembrare il nostro io bambino e sentire i suoi bisogni e il suo concetto di felicità. Vi stupirete dell’effetto! I bambini desiderano molto meno di ciò che pensiamo. Sono davvero felici con quel poco che in realtà racchiude il tutto.

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Stiamo costruendo un mondo di insoddisfatti per il semplice fatto che ci hanno insegnato a misurare il nostro amore in oggetti, tempo, avventure strabilianti volte a far rimanere stupefatto il destinatario. Siamo davvero felici solo per eventi eccezionali? Siamo così tanto infelici della nostra quotidianità? E’ più importante dunque cercare qualcosa di stupefacente nella quotidianità o creare artificialmente dei motivi per essere felici? Vi è mai capitato di chiedere ad un bambino quando si è sentito davvero felice? Sono storie di “ordinaria banalità” APPARENTEMENTE. La straordinarietà sta proprio lì. Facciamoci contagiare.



Il silenzio degli innocenti

C’è il Covid 19. Una pandemia mondiale. Un qualcosa di inspiegabile agli occhi della scienza e dell’umanità intera. Nessuna certezza nè sulle cause, nè sulla cura, nè sulle discriminanti per cui colpisce in modo serio e dirompente su un corpo e non su un altro. Ci sono state date delle misure di prevenzione del contagio che prevedono il distanziamento sociale (e famigliare), indossare la mascherina, utilizzare il gel igienizzante spesso, niente abbracci nè strette di mano. Per un tempo molto lungo i bambini non sono andati a scuola, i parchi giochi erano chiusi. Le vacanze hanno donato un barlume di speranza, ma l’autunno ha riportato tutti nella paura, nello sconforto e nella preoccupazione. C’è chi ha smesso di vivere prima ancora di morire. Ma aldilà di come una la pensi in termini prettamente personali, che sono tarati su esperienze di vita, cultura, idee, credenze, ambiente in cui si vive, ecc… c’è un dato su cui sicuramente siamo tutti d’accordo: questa vicenda ci sta toccando tutti dal punto di vista psicologico. Chi per un motivo, chi per un altro, tutti, in qualche modo, siamo influenzati da questa situazione.

Solo che gli adulti urlano, imprecano, discutono, si informano, hanno un pensiero consapevole che li porta a spiegarsi, a correggersi, a sopportare e contestualizzare certe esperienze, sentimenti, emozioni. Ci sono delle persone però che non hanno vissuto abbastanza a lungo ancora, da cercare informazioni, trovare spiegazioni, crearsi una propria opinione personale su un tema di tale portata, perciò si affidano alle nostre emozioni, sensazioni ed esperienze; appoggiano la loro conoscenza sulla nostra. Ci sono persone, che chiamano bambini, che non urlano, spesso non piangono, non dichiarano, ma comunque sentono e provano tutte le emozioni che sentiamo e proviamo noi. Vedo bambini arrabbiati, che distruggono, che non riescono ad interagire in modo sano con gli altri, troppo ribelli o troppo silenti; bambini fragili, aggressivi, poco inclini a parole gentili verso l’altro. Non erano così prima. Non nutrivano questi sentimenti. C’erano, erano presenti come è normale che sia, ma non in questa quantità nè con questa foga. I bambini non comunicano direttamente, forse anche perchè non lo sanno di preciso nemmeno loro che cos’è questo turbine di sensazioni in cui sono immersi, ma ci stanno urlando, silenziosamente, il loro disagio.

Non mi interessa dare colpe rispetto a questo, l’unico augurio è che le orecchie di chi si occupa di loro, siano ritte e in ascolto, siano pronte e sintonizzate su questa onda, la colgano e, in qualche tenero modo, la rimodellino per restituirla con una forma che possano riconoscere e un messaggio di speranza che faccia da cornice. Perchè i bambini si sa, sono esseri speciali. Si adattano a tutto. Subiscono soprusi, ingiustizie, calunnie, botte, insulti. Loro sopportano, il più delle volte incanalano, spesso proseguono con il sorriso, apparentemente non intaccati. Questa volta non abbassiamo lo sguardo, non diciamogli che va tutto bene. Non va tutto bene. I bambini hanno diritto di sapere perchè la mamma piange, perchè il papà è a casa dal lavoro ed è preoccupato, perchè la scuola chiude e non può invitare i suoi amici a casa, perchè le maestre hanno la mascherina e sono più stanche dell’anno scorso, perchè non possono abbracciare i nonni nonostante in tv ci siano persone a cui è concesso. I bambini capiscono e si adattano, ma non fingiamo che vada bene così. Non fingiamo che sia “normale”. Non fottiamocene solo perchè tanto loro non fanno domande ed eseguono. I bambini di oggi porteranno con sè un disagio sociale enorme nei prossimi anni, una disarmonia psichica sui valori umani, una insicurezza sul giusto e lo sbagliato, l’incertezza come compagna di banco, che purtroppo daranno i loro frutti in età adolescenziale e addirittura adulta. Ci saranno, spero, ricercatori che si preoccuperanno di questo disagio, che stileranno statistiche, formuleranno ipotesi, doneranno le loro conoscenze per aiutare a distruggere il rifugio di questo virus: la mente. Per risanare bisogna togliere il marcio.

Ci sarà tanto da fare rispetto a questo. Ma il domani è lontano, mentre l’oggi è ora e siamo noi che possiamo fare la differenza. Noi che abbiamo paura, siamo preoccupati, angosciati, privi di speranze, insicuri, dubbiosi. Noi che arriviamo a casa e parliamo di numeri di contagiati, di casi positivi, di falle del sistema. Che ci alleiamo con il governo o che inveiamo contro .Noi che ci sentiamo impotenti o rivoluzionari. Siamo genitori, insegnanti, psicologi, infermieri, medici. Siamo adulti che si prendono cura dei bambini. Come disse Maria Montessori tanti anni fa, mente e corpo non possono essere scollegati. Ne deriverebbe un “uomo spezzato”. Occupiamoci dunque del silenzio dei bambini. Impariamo ad osservarlo, a sentirlo, a rileggerlo. Offriamo alla loro mente e al loro cuore la possibilità di comprendere i sentimenti e le emozioni che derivano da questo periodo senza condannarle. Troviamo insieme, ognuno con il proprio giusto modo, la soluzione per salvaguardarci in un momento di disagio globale. Ricordiamoci che anche il silenzio è ricco di parole.
Buon Ascolto e Buon Abbraccio

Manuela Griso

La campanella silenziosa della fine della scuola

E’ finita la scuola. Quella digitale,con i visi piatti dietro allo schermo, dove non senti i profumi e gli odori dei tuoi compagni di avventura; quella dove un discorso importante viene interrotto dalla linea scadente; quella dove non puoi chiedere aiuto al compagno; dove la maestra fa l’ “interrogazione” di gruppo perchè si sente male al pensiero di interrogare un bambino senza poterlo guardare negli occhi, senza sentire sulla pelle se ha bisogno di più tempo per rispondere o di un piccolo incipit. E’ finita la scuola e i bambini non hanno potuto salutarsi, salutare le loro insegnanti, quelle persone che li hanno accompagnati per il loro ciclo di studi e di vita. E’ finita la scuola, senza la campanella che suona lungamente per annunciarne la venuta; senza i canti di fine anno,con la felicità dei bambini per l’arrivo delle vacanze;è finita senza lo spettacolo, la consegna del diploma, i pianti.


Si è vissuta la privazione: della libertà, dei diritti, del contatto umano, della cultura e del lavoro.
Si è vissuta la paura: della malattia, della ripresa della vita “normale”, del contatto con l’altro, dei burocrati fanatici, della perdita del lavoro, del futuro incerto.
Si è vissuta la frustrazione, la rabbia e l’impotenza: per non poter fare altro se non stare in casa, per non poter far parte di una soluzione “attiva”; per non poter cambiare le cose.
Si è vissuta la speranza: che tutto potesse finire presto, che la malattia non ci colpisse, che la vita potesse tornare a scorrere, che il lavoro potesse ricominciare, che i nostri figli potessero tornare a scuola.
Si è vissuta l’attesa: alle volte con gratitudine per i tempi lenti, famigliari,quelli che servono per la lievitazione; altre volte con incertezza, sofferenza e insofferenza.
Per noi adulti, promotori della fretta, della produzione, dell’affermazione, stare fermi ad aspettare senza certezze, senza tempi definiti, senza soluzioni alla mano, è stato un tempo duro, in cui tutto ha cambiato forma.
Per i nostri figli, poi,non eravamo più solo mamme e papà, eravamo maestri. E siamo caduti, nelle nostre fragilità culturali. Chi in matematica, chi in italiano, in storia o in tecnica. Siamo caduti di fianco ai nostri figli e abbiamo cercato risposte. Su internet, tramite amici, tra moglie e marito, o chiedendo direttamente alla maestra via chat. Siamo caduti, ma ci siamo rialzati. Avevamo un bastone forte a sorreggerci: i nostri figli.
Loro che hanno vissuto tutte le nostre emozioni, anche quelle non palesate a parole o in atteggiamenti chiari; che hanno sentito, nella carne, tutto ciò che abbiamo provato; che erano invasi dalle loro molteplici sensazioni,ci hanno sorretto. Si sono adattati, sono stati pazienti, si sono ridimensionati e hanno continuato a portare il sorriso per la maggior parte del tempo.
Ma cosa hanno vissuto questi bambini, queste bambine, questi ragazzi e queste ragazze?
Hanno sentito caos.

A tratti pervasi dalla felicità di stare a casa con mamma e papà, a cucinare, dipingere pareti, giocare insieme. Dirompente però la sensazione che questa non fosse la normalità e che venisse anche mal-accettata dai genitori, che portasse sconforto, paura, incertezza. L’avanzare dei giorni di lockdown ci ha portati a parlare con i nostri bambini, a confrontarci, a mostrare i due lati della medaglia. Loro stessi portavano insofferenza, litigi, il desiderio di tornare a scuola.


E come lo si spiega ai bambini che dal 4 maggio tutto, piano piano, sta tornando come lo conoscevamo prima della pandemia, tranne la scuola? Che si può andare al ristorante, che ci si può abbracciare sul campo da calcio,ma che loro non hanno diritto di farlo con gli amichetti? Come lo si spiega ai bambini che gli adulti possono lavorare in 20-30 tutti insieme, mentre loro dovranno essere suddivisi in piccoli gruppi?
Non ho risposte per queste domande, perchè sono le stesse che mi pongo dal 4 maggio senza trovare una logica sana per rispondere a tutto questo.
L’unica cosa che è finita davvero con la pandemia è la Scuola. Che questo sia però motivo di ri-evoluzione, di re-invenzione di un’intero sistema. Sistema che si adatterà alle esigenze degli alunni, non viceversa. Che si utilizzi questa FINE come una ripartenza verso nuovi orizzonti. Io ci credo in una NUOVA SCUOLA. Credo che ci siano persone, professionisti, che hanno già compiuto grandi passi negli anni addietro, verso una direzione diversa, più naturale. Che hanno improntato il loro insegnamento sulla relazione con l’alunno e non solo con nozioni sterili.

Cogliamo questa opportunità e costruiamo un nuovo modello di scuola.
Che sia ricca di contatti umani, di relazioni, di gioco, di Natura, di apprendimento curioso.


Se i bambini hanno subìto il peggio, ora hanno diritto al meglio che possiamo immaginare.
E’ finita la scuola, ma possiamo e dobbiamo ricostruirla. Per loro, per noi, per l’umanità intera.

Manuela Griso

Litigare Bene: tecniche pratiche per aiutare i bambini nella gestione del conflitto

Una delle capacità che è ritenuta fondamentale nella società attuale è l’intelligenza emotiva. Essa si sviluppa attraverso un allenamento in più direzioni:

1.Autocoscienza:Come mi sento io? Che cosa provo? Riconoscere le proprie sensazioni ed emozioni, avere un’ alfabetizzazione rispetto a ciò che si prova, permette di gettare le basi su quella che è l’educazione emozionale.

2. Autoregolazione: capacità di gestire le proprie emozioni

3.Automotivazione: capacità di perseguire un obiettivo

4. EMPATIA: capacità di metterci nei panni dell’altro

5. ABILITA’ SOCIALI intese come INTELLIGENZA SOCIALE

Tutte queste aree di competenze che fanno parte dell’intelligenza emotiva, vanno allenate e supportate, affinchè si possa imparare a “litigare bene”, come dice il pedagogista Daniele Novara.

A tal proposito, quando i bambini litigano, è bene distinguere il ruolo dell’adulto e dividere gli educatori/insegnanti dai genitori, per la diversità di relazione e reazione che questo processo innesca. Ma, rimanendo per ora soltanto nel ruolo dell’adulto, possiamo dire senza indugio che, come sempre nella pedagogia montessoriana a noi molto cara, egli dovrebbe rimanere quanto più nell’ombra, osservare e non intervenire. Questo compito molto arduo, se portato a termine, permette ai bambini di apprendere e confrontarsi con :

1.Il principio di realtà : adattare i propri desideri al contesto esterno;

2. Il decentramento emotivo e cognitivo: esisto io con le mie emozioni e le mie soluzioni, ma anche l’altro con le sue;

3. Il pensiero divergente: allenarsi a pensare soluzioni nuove e creative, che possano mediare tra i desideri miei e dell’altro.

L’intervento dell’adulto non favorirebbe questi processi, in quanto tenderebbe a far terminare il conflitto nell’immediato e a fornire soluzioni preconfezionate, spesso lontane da quelle che penserebbero i bambini.

Analizzando la situazione da genitore, sarà capitato a tutti voi, di dover gestire un litigio tra bambini e generalmente si sfocia in tre reazioni di base:

  • Parteggiare per l’uno o per l’altro (rivestendo il ruolo di salvatore per colui che è la vittima in quel momento)
  • Sgridare o punire (eccoci nel ruolo del carnefice a discapito di colui che lo ha rivestito finora)
  • Urlare

Questo ci porta sicuramente a risolvere il conflitto in poco tempo, ristabilendo l’egemonia del potere adulto, ma cosa si portano a casa i bambini?

-Paura

-Senso di inadeguatezza

-Rabbia

– A volte anche senso di colpa per aver fatto arrabbiare l’adulto

-Un congelamento delle proprie emozioni

Partendo dal presupposto che i bambini apprendono anche per imitazione, capiamo bene quanto questi atteggiamenti possano influire sulla loro capacità di “litigare bene”. Per cui: Come reagisco io ad un problema? Sono un esempio per il mio bambino?

L’adulto,che viene chiamato in causa in un litigio tra bambini, ha il delicato compito di non ergersi a giudice, perchè innescherebbe il meccanismo del triangolo (vittima, carnefice, salvatore, come scritto precedentemente) il quale innesca degli automatismi inconsci che tendiamo poi a riprodurre nella nostra vita:

-esisto solo se prevarico gli altri (carnefice)

-esisto solo se manifesto la mia sofferenza (vittima)

-sono responsabile per gli altri, sono indispensabile (salvatore)

ma di fornire strumenti utili affinchè i bambini si ascoltino e mettano in atto le competenze emozionali acquisite. Quali sono questi strumenti?

A litigio iniziato:

consegnare loro dei turni di parola affinchè si ascoltino senza interrompersi; (può essere utile utilizzare un gomitolo)

sottolineare la validità delle ragioni dell’uno e dell’altro;

invitarli ad esprimere come si sentono;

invitarli ad esprimere le loro volontà;

domandare loro quale soluzione propongono per risolvere il conflitto.

E’ complesso inizialmente attuare il meccanismo del buon litigio, perchè è faticoso, lungo, lento. Ma la domanda che dobbiamo tenere a mente è:

Che cosa vogliamo ottenere?

Se vogliamo ottenere che i nostri bambini possano esercitare tutte le loro competenze emozionali, allora il nostro sforzo, sarà supportato dall’auto- motivazione.

E’ bene sapere che le emozioni hanno una “scadenza”. Esse sorgono nell’amigdala e vengono gestite dalla corteccia prefrontale. Per fare questo percorso impiegano 90 secondi. Ecco perchè è bene contare fino a 100 prima di reagire! Per dare il tempo all’emozione di arrivare nella corteccia prefrontale che è colei che è in grado di aiutarci nella gestione delle emozioni. Per cui,

-mostrare un momento di “pausa” in cui poter elaborare l’emozione, ritornando a respirare ad un ritmo regolare, è un ottimo inizio.

-Esprimere l’emozione provata è il secondo passo che traccia il sentiero dell’empatia. Ti mostro la mia emozione e tu puoi mostrarmi la tua, sono diverse forse, ma entrambe valide.

I bambini impareranno così che le emozioni possono essere espresse e gestite, che sono delle alleate e non dei nemici. Ricordiamoci però che la loro corteccia prefrontale non è ancora del tutto formata, per cui hanno la necessità di essere accolti e guidati in questo viaggio nella gestione delle emozioni.

Ultimi consigli utili:

-MAI etichettare un bambino per un atteggiamento durante un litigio. Così come il voto non fa il bambino, anche una scelta sbagliata non fa di lui un bambino sbagliato.

-Esperimento interessante sono i giochi di ruolo: il genitore fa il bambino, innesca un conflitto.Sarà interessante vedere la reazione del bambino e le soluzioni da lui progettate per la risoluzione.

-Qualora fossimo noi a dare l’esempio sbagliato, non dobbiamo mai dimenticare che si può e si deve recuperare, mostrando loro l’errore e spiegando perchè è stata una scelta sbagliata. Sbagliata non era l’emozione, ma il modo in cui l’ho espressa.

Tutti i soggetti sani sono dotati dei neuroni-specchio che ci permettono di attivare la stessa area del cervello attivata dalla persona con cui stiamo avendo una qualche forma di interazione. La natura ci ha così dotati di una base empatica che può aiutarci a “litigare bene”, ci vuole però allenamento e costanza.

Il Litigio Sano porta ad uno sviluppo di capacità multiple che possono essere applicate a diversi contesti.

Manuela Griso

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