Vedere il dolore invisibile: eutanasia e consapevolezza sociale

23 anni e sentire già il peso della vita. 23 anni e desiderare di morire per smettere di soffrire.
Una sofferenza così profonda, da non poterne toccare il fondo. Scorgerla infinita e credere che non ci sia più una via di uscita verso la Vita.


Shanti De Corte, belga, ha chiesto e ottenuto l’eutanasia per grave depressione e stress post traumatico. La ragazza all’età di 17 anni era sopravvissuta ad un attacco terroristico a Bruxelles. La sua vita da allora non fu più la stessa. La paura invase completamente la sua esistenza. Non riusciva ad uscire di casa, ad andare a scuola, a vedere amici. L’unica risposta che parve efficace fu la farmacovigilanza, con ben 11 antidepressivi giornalieri, per tenere sotto controllo tutti i sintomi.

Shanti De Corte (facebook)


Non cadiamo nel giudizio di una sua richiesta, né rispetto al suo sentire. Chiediamoci che cosa la società ha sbagliato verso questa ragazza. Che cosa si poteva fare per lei all’epoca dei fatti? Che cosa durante tutti questi anni? Abbiamo veramente fatto tutto il possibile per sostenerla? E non mi riferisco ai suoi genitori, che solo loro possono sapere il dolore che provano e che hanno provato. Parlo della società intera e del sistema che ha permesso ad una ragazza di 23 anni, di credere che non ci fosse più nulla da fare per lei. Di pensare che il dolore fosse più grande della gioia. Di credere che il male vincesse sul bene. Perché questa responsabilità va presa.
Negli anni ci sono state diverse riflessioni sull’eutanasia. Da un punto di vista religioso, sociale, culturale. Ci si domanda quando sia giusto concederla e quando no. Ma anche questo sarebbe un giudizio sulla scelta finale, senza invece porre l’attenzione al prima. Generalmente viene concessa per gravi difficoltà fisiche, dolore cronico e non alleviabile. È forse stata la prima volta ad essere stata concessa per il dolore invisibile: quello dell’anima. È forse questo che ci ha colpito maggiormente. Era un dolore non visibile, non palpabile, non misurabile, non udibile, che non rientrava in qualche tabella medica, eppure è stato preso in considerazione. La riflessione necessaria riguarda il fatto che per la prima volta, il dolore dell’anima ha avuto un importanza storica rilevante, al pari del dolore fisico. Questo però ci concede da un lato di mettere un punto importante sul fatto che la mente è fondamentale tanto quanto il fisico e pare una banalità, ma non lo è; dall’altro di iniziare a pensare a quali modi ci possono essere per far sì che non accada più. L’educazione è parte integrante di questa responsabilità. Il dolore invisibile va reso visibile, va visto e sentito. Bisogna educare i bambini, i ragazzi a rimanere sintonizzati sugli occhi degli altri, connessi al sentire profondo, affinché il dolore non passi inosservato.


Abbiamo subito una sconfitta importante con questa sentenza. Una ragazza è morta e mentre il progresso scientifico avanza continuamente e cerca e trova nuovi metodi, nuove sperimentazioni per le malattie più rare, più complesse e menomanti, al fine di evitare il più possibile un dolore così insopportabile da portare al desiderio della morte, meno si sente il movimento che sostiene il dolore psichico. Non possiamo più permettercelo. In un mondo di attentati; pandemie con restrizioni che minano gravemente la vita sociale; crolli economici e finanziari mondiali che portano al collasso moltissime aziende e conseguenti famiglie; il dolore dell’anima, quello profondo e invisibile, può portare a suicidi, a fine vita assistiti, a trovare comunque nella morte, l’unico sollievo possibile.

Non chiamatela depressione con un certo grado di disprezzo e di svalutazione. Non sminuite le situazioni, i drammi, il dolore profondo. Aprite gli occhi negli occhi dell’altro. Osservate, scrutate, accarezzate. Dobbiamo cercare e trovare nuove strade, continuare a tentare, a provare, a tastare territori inesplorati, per poter dare delle risposte più efficaci a situazioni drammatiche che segnano inevitabilmente la vita di chi le subisce, ma non può e non deve far arrivare una persona al punto tale da vedere nella morte l’unica fine possibile al dolore.


Il suo nome significa “pace”, che possa averla trovata in quella morte che le è sembrata rifugio.  

IL DOLORE INVISIBILE DEL LUTTO PERINATALE

Esistono dolori così profondi che risultano invisibili. Delle lacerazioni così intime che se non accarezzate, cullate, ascoltate, possono portare ad una morte silenziosa. Il dolore consuma. Alle volte lascia uno straccio umido a terra e spera che qualcuno lo possa raccogliere. Le lacrime versate sono così tante che il corpo si asciuga. Il cuore spezzato in mille piccoli pezzi non sa se battere più forte per tentare di restare in vita o lentamente per conservare energia sufficiente per battere ancora a lungo. È un dolore sordo ma acuto, lancinante. Guaisce come un cane abbandonato, ma la voce resta muta all’interno di noi. Il lutto perinatale che tantissime donne hanno subito e subiscono è un qualcosa di illogico. Nella naturalità del ciclo vitale, la morte arriva dopo aver vissuto a lungo e i genitori muoiono prima dei figli. Qui il processo si inverte e ci si ritrova a dover affrontare l’innaturalità. La morte di un figlio è una sofferenza talmente lancinante che ti lascia solo.

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Nessuno può comprendere ciò che stai vivendo: le sensazioni di perdita, le emozioni di rabbia, di ingiustizia che stai attraversando. La convinzione profonda che nemmeno il papà del bambino stia vivendo la medesima sfida, ci porta ad auto-isolarci e ad isolare l’altro.
Non è semplice avvicinarsi a chi sta soffrendo così tanto. Le parole non sono mai abbastanza. Il contatto a volte viene rifiutato. La paura di mostrare tenerezza verso il dolore e che questa venga vista come pena, porta spesso all’allontanamento. Così la madre si isola, il padre viene escluso, gli amici si allontanano e la sensazione di vuoto si allarga. Il baratro diventa profondissimo e tu sprofondi dentro. Vorresti morire, spegnerti, lasciarti andare. Lotti con il tuo corpo che conserva l’istinto di sopravvivenza. Lotti con la convinzione che resterai per sempre infelice. Il corpo si irrigidisce, il dolore diventa anche fisico. Ti guardi allo specchio e non sai più chi sei. Vedi una persona che non sei tu, ma che sai ti accompagnerà da ora in poi. Non ricordi l’ultima volta che hai respirato, o forse sì, è l’ultima volta che hai visto tuo figlio. Nell’ecografia o mentre dormiva nel suo lettino, all’interno di un’incubatrice o sul monitor dell’ospedale. Dopo non hai respirato più. Lui non c’è più e una parte di te si è seppellita insieme a lui.

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Lo hai sognato, immaginato, amato, sentito, visto, portato, nutrito. E poi non c’era più. Anche il tuo compagno lo ha sognato, immaginato, amato, sentito e visto. Lo ha portato con te prendendosi cura di voi, lo ha nutrito nutrendo te. Anche lui ha perso tanto. Anche lui vive l’ingiustizia. Si era visto padre, sognato situazioni, vissuto emozioni. Lo ha immaginato al mare, la sua prima volta sulla sabbia e l’acqua fredda; quando gli avrebbe insegnato ad andare in bicicletta o lo avrebbe guardato dormire beato pensando che fosse la cosa più bella che avesse mai visto. Avete perso insieme la partita più grande della vostra vita, state vicini. Non vi perdete anche voi. E non illudetevi. Non ascoltate i consigli maldestri di chi per consolarvi vi dice di farne un altro che poi passa. Non passa. Non passa mai. E se non elaborate questo dolore, se non lo rendete più dolce, più sopportabile, vi lascerà a terra o peggio ancora, lo trasporterete in modi diversi sul figlio o la figlia che arriveranno dopo la sua morte.
Abbiate cura di voi e sappiate che non siete soli.

CiaoLapo Onlus è un organizzazione che si occupa di lutto perinatale e di accompagnamento e sostegno psicologico a chi affronta la dolorosa esperienza della morte del proprio bambino in gravidanza e nei primi mesi di vita. Sicuramente ci saranno altre organizzazioni di sostegno al lutto perinatale, io conosco loro, per questo mi sento di pubblicarne il nome.

Potrebbero esistere anche gruppi di autosostegno gestiti ed organizzati da chi ha subito questa perdita. Fate una ricerca nella vostra zona. Ci sono molte più persone di quante crediamo all’interno di questo burrone.

Per concludere vi lascio una riflessione personale che per me è stata di grande aiuto, ciò che mi ha permesso di andare avanti: partorire o far continuare a vivere la mia bambina, anche se in un modo diverso. Questo mi ha salvata. Nel mio caso mia figlia è nata con un progetto di un centro polifunzionale per il bambino e la famiglia chiamato Il Mondo di Anya 💚.
Ci sono milioni di modi per far nascere e vivere un bambino. Scegliete la vostra strada. In qualche modo così ristabilirete i posti a tavola al pranzo di Natale in famiglia.
Un abbraccio a tutti voi!
Manuela

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