IL MANTELLO PERBENISTA DEL “PER IL BENE DEI FIGLI”

La separazione dei genitori è ormai un elemento comune a molti bambini. Purtroppo però sono ancora poche le volte in cui padre e madre riescono ad accordarsi e ad affrontare la situazione nel migliore dei modi per “il bene dei figli”.
Ma qual è il bene dei figli? Chi lo stabilisce?
Ogni essere umano è unico ed inimitabile, nella buona e nella cattiva sorte. Questo, è evidente, porta ognuno di noi ad avere dei bisogni diversi gli uni dagli altri. Ciò comporta un contrasto chiaro con i criteri che si reiterano da secoli in tema di separazioni.

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Alcuni miti da sfatare che si verificano ancora troppo spesso:
1.”Il bene dei bambini è stare con la mamma” per quale motivo? Chi stabilisce che un genitore, solo in quanto donna, sia più adatto a prendersi cura di un bambino in tutta la sua complessità? Non sono forse le inclinazioni naturali, la visione del mondo, l’impegno costante, le competenze emotive, a dover illuminare certe decisioni?
2.“Il bene dei bambini è la bi-genitorialità” ma davvero riteniamo che alcuni soggetti, senza sostegno alcuno, possano essere genitori consapevoli di ciò che stanno facendo? Persone violente, con dipendenze di ogni sorta, che non si prendono nemmeno cura di se stesse? E questo indipendentemente dal sesso. Uomo o donna non fa differenza. Ci sono madri che dichiarano apertamente di non aver voluto  i figli, ma poi, pur di apparire buone e socialmente adeguate, si giocano la carta del tribunale contro i padri. Ci sono padri che non conoscono nemmeno le allergie gravi dei figli, ma che si dichiarano padri presenti e attenti ai propri bambini. Non tutti sono in grado di fare i genitori. Non possiamo pensare che basti mettere al mondo una creatura per diventarlo. E obbligare qualcuno a farlo non è una scelta che comporta benefici effettivi, né per i genitori, né tantomeno per i figli.

Che il bene dei figli sia rimanere solo con il papà non l’ho mai sentito dire, forse perché gli uomini sono più umili sotto certi aspetti e non pensano di poter fare tutto loro. Da sempre sono considerati il genitore numero 2, quello non così indispensabile. Spesso le madri si ergono ad esseri superiori, ma indossando il mantello del martire ” lo faccio perché sono capace solo io, mannaggia a te che sei un incapace” o “se non lo faccio io chi lo fa?” Di fatto si mettono da sole nella condizione del monogenitore nonostante siano ancora in coppia. Avvenuta la separazione mantengono il ruolo e l’ex ha due vie: o tentare di costruire un rapporto paritario rispetto ai figli, o mantenere anche lui il suo ruolo da padre assente . Dove stia la verità è spesso molto difficile capirlo,perché le versioni discostano sotto molti aspetti.

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Le storie di oggi sono piene di donne vittime dei propri ex mariti o compagni e tanti sono stati i segnali precedentemente, ma nessuno se n’é voluto occupare. È aberrante e inaccettabile.
Mi domando allo stesso tempo quanti uomini ci siano, vittime emotive di donne che si credono il creatore. Che si arrogano il diritto di scegliere a discapito di un rapporto padre/figli, coprendolo anche con il mantello del “bene per i figli”.
L’unico tassello univoco a tutti è che il bene per i figli sarebbe poter avere dei genitori che li amino, indipendentemente dai rapporti tra loro; che non si facciano la guerra pensando che eliminare l’altro (ritenuto inadeguato) sia “il bene dei figli”.
La manipolazione della realtà a proprio vantaggio, la cecità di fronte a palesi reazioni dei figli che indicano che si sta andando nella direzione sbagliata, magari accompagnati dalla nuova compagna/o, è un modello usuale ai più, durante e dopo la separazione. Non si vedono più, davvero, i propri figli, ma si vede ciò che si vuole vedere. Si pensa che se la situazione fa vivere bene noi, sia certamente così anche per i figli. E mentre loro si arrabattano con strategie di sopravvivenza più o meno evidenti, noi li vogliamo vedere felici, per cui questa sarà la storia che racconteremo a noi stessi e agli altri.

L’altro genitore viene dipinto come assente, immaturo e inadeguato ( padre); poco di buono, pazza ed esagerata (madre). Il risultato sta nel mezzo, dove troviamo figli che non sanno schierarsi, che se lo fanno si sentono colpevoli e che spesso, molto spesso, non vengono creduti. Se uno dei due genitori dice all’altro: “il bambino mi ha detto che… ” si viene subito accusati di essere bugiardi, se non addirittura di alienazione. Ci si ritrova così a dover abbozzare per quieto vivere, a sentirsi dei genitori inadeguati perché non possiamo sostenere il nostro bambino, o a fare la guerra pur di ottenere ciò che riteniamo giusto per i nostri figli.


Come uscire dunque da questo tunnel? Come comprendere quando stiamo realmente vedendo la realtà e quando invece indossiamo lo sguardo del nostro benessere come filtro?
1) Tuo figlio ti dice che dall’altro genitore fa qualcosa che non gli piace fare. Invece di sentirti in colpa o prendere di petto la situazione, senza sapere dove ti porterà, lavora con tuo figlio affinché piano piano possa prendere coraggio e dire al genitore in questione di che cosa avrebbe bisogno. Come fare? Rimandando al bambino che con l’altro genitore può parlare, che sarà pronto ad ascoltarlo, che la sua opinione è importante; oppure provare le strategie del problem solving cercando delle possibili alternative da mettere in atto. Fate una bella lista, con tutte le idee che vi vengono in mente (genitore e figlio), poi rileggetela e spuntate le idee che non sono attuabili. Arriverete a trovare delle soluzioni insieme, mostrando al bambino una strategia efficace di risoluzione dei conflitti, che interiorizzerà nel tempo e potrà far parte del suo bagaglio comunicativo.
2) Vostro figlio vorrebbe stare di più con voi che con l’altro genitore.
Analizzate con calma la situazione. Domandate a vostro figlio che cosa fate (o siete) che lo rende più felice quando siete insieme. Senza accusare l’altro genitore o sminuire le sensazioni del bambino, parlate insieme dei suoi bisogni. Ascoltateli. Provate a rimandare l’emozione che secondo voi provano,  per verificare se avete ben compreso. A questo punto domandatevi quale emozione scaturisce in voi tutto questo. Riguardate i bisogni del bambino e i vostri. Se riuscite, con empatia, provate a spiegare al bambino, perché in quel momento non è possibile soddisfare quel bisogno. Se sapete già che potrà essere soddisfatto, date loro una scadenza. Se vi sentite impotenti, abbracciatelo. Capirà.
3) Temete che l’altro genitore possa mettervi contro i figli.
I figli amano i loro genitori. Indipendentemente da come questi si comportino con loro. Che siano affettuosi e attenti o violenti e assenti, loro li amano comunque. E cercheranno sempre di renderli felici. Anche quando sembra che facciano di tutto per ferirli , in realtà ricoprono il ruolo che gli è stato assegnato. Vogliono dare ragione al genitore, pensando che così sia felice. I bambini vogliono il bene dei loro genitori, alle volte più di quanto i genitori vogliano il bene dei figli.
Quando un genitore parla male dell’altro con i figli, potrebbe ottenere un iniziale rapporto conflittuale tra i due, ma esso si risolverà in tempi brevi se quello che è stato riferito non è la verità. I bambini sono piccoli, non stupidi. Sentono il bene e ne sono affamati.
Si può cadere però anche nel lato opposto. Ovvero… Il genitore dice la verità e il bambino lo prende per bugiardo e non gli crede. Anche in questo caso, il bambino mostra l’amore verso il genitore che secondo lui è più fragile. Per cui si può ottenere come risvolto un maggior attaccamento.
Per evitare tutto questo, è necessario,seppur complesso alle volte, che ogni genitore pensi al proprio rapporto con il figlio, senza intromettersi nelle dinamiche con l’altro. Soltanto così il bambino sarà libero di osservare con i propri occhi, di farsi una sua opinione e di manifestare i suoi stati d’animo senza influenza alcuna. Ci si sente impotenti nel vedere la manipolazione e nel comprendere che è meglio supportare a lato ed eventualmente raccogliere i cocci, senza intervenire a gamba tesa. L’istinto ci porterebbe dall’altra parte, ma il rapporto con l’ex può influenzare la nostra visione delle cose.
4) Domandatevi se foste nei panni di vostro figlio come vi sentireste.
Chiedetevi che cosa sta provando, se corrisponde a come vi sentireste voi. Analizzate i conflitti che pensate stia vivendo e create con lui uno spazio di ascolto. Soltanto voi due. Apritevi a lui. Dedicategli del tempo vero. Dove la vostra attenzione non sia interrotta dal suono del cellulare, dalla televisione o dalle parole di un altro adulto.
5) Non rinnegate il passato.
Avete vissuto con il padre o la madre dei vostri figli per un certo tempo di vita. Avete condiviso gioie e dolori. Vi siete amati e magari anche odiati. Ma da quel rapporto sono nati i vostri figli, che meritano di sapere che i loro genitori si sono amati, che il rapporto è mutato, ma il rispetto resterà sempre. Hanno bisogno di saper e che in qualche modo, una parte di amore resterà per sempre. Altrimenti non crederanno più ai vostri “ti voglio bene”. Penseranno che sarà così finché non faranno qualcosa che vi farà arrabbiare davvero. E da lì, allora, odierete anche loro.
Dobbiamo dare loro l’assoluta certezza che il nostro amore per loro non passerà mai. Dobbiamo essere coerenti. Se passiamo dall’amore all’odio con facilità in rapporti importanti, è come se confermassimo loro che prima o poi li abbandoneremo, esattamente come abbiamo fatto nella relazione con l’altro genitore.

Non ci sono formule magiche per una “separazione serena”. I due termini insieme già suonano come una dicotomia.
Ma lo scopo di tutto questo è ricordarsi che non esiste “IL bene dei figli”; esiste l’idea che ognuno di noi ha rispetto a questo e l’unica legge che davvero dovremmo tenere a mente è quella di continuare a rispettarsi nonostante tutto e ad osservare i nostri figli, senza filtri attivi.
Questa è l’unica base per il vero bene dei figli. Da lì si può partire a costruire tutta la parte gestionale e organizzativa, tenendo presente le esigenze e i bisogni dei bambini, partendo dai loro sguardi. Ricordandosi che fare il genitore è un onore, non un peso. Per cui non siamo eroi se abbiamo un nucleo monogenitoriale o se stiamo con i nostri figli la maggior parte del tempo perché l’altro genitore è impossibilitato da eventi o da volontà. Noi siamo quelli fortunati. Quelli che possono godere di momenti importanti che non torneranno più. Non sentiamoci eroi e nemmeno martiri, vittime di uomini o donne latitanti che non ricoprono il loro ruolo. Sentiamoci grati per poter godere ogni giorno della presenza dei nostri figli, del loro amore e dei loro preziosi insegnamenti.

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Cari mamma e papà,
ho due anni e non capisco
come mai devo stare a volte lontano dal papà e a volte dalla mamma. Voi me lo avete spiegato, ma io non ho capito bene. Vorrei potermi addormentare ogni sera con la favola del papà e il bacio della mamma, vorrei potermi arrabbiare con uno e farmi consolare dall’altro per poi tornare ad abbracciarci tutti insieme.
Cari mamma e papà, ho 4 anni e sono arrabbiato. Vorrei non dovermi spostare da una casa all’altra in continuazione e poter dormire con voi nel lettone come facevamo prima. Vorrei non svegliarmi nel cuore della notte e chiamare papà senza che mi possa rispondere e vorrei poter abbracciare la mamma quando esco da scuola ogni giorno. Non voglio dover andare via dal papà quando stiamo giocando e non voglio lasciare la mamma quando sono stanco.
Non mi piace vivere così.
Cari mamma e papà ho 7 anni. Nella mia classe ci sono tanti bambini che hanno la mamma e il papà in due case diverse. Non mi sento speciale, mi sento solo triste e alle volte mi sento un peso. Tu, mamma, ti arrabbi se sto con te nel giorno in cui dovrei andare da papà, ma papà non può. E alle volte invece sento te, papà, che vorresti andare a sciare ma poi dici: ma devo stare con mio figlio. Vorrei non dover scegliere la domenica se stare dal papà o dalla mamma. Vorrei che foste voi a decidere perché per me è troppo difficile scegliere. Io voglio bene ad entrambi.
Cari mamma e papà ho 14 anni. Vi siete separati da tanto ma ancora vi sento parlare male l’uno dell’altra. A volte papà mi dice che sono come te, mamma, e ho capito che lo dice con un tono dispregiativo. Altre volte mamma mi dice che tu sei un egoista perché non rispetti gli impegni presi. Ma io lo so, papà, che tu se non vieni è perché hai un motivo valido, lo so che mi vuoi bene e che per te sono importante. Quando siamo insieme parliamo, stiamo insieme, ti dedichi a me.
Io lo so, mamma, che tu sei una donna forte e in gamba, che alle volte quando non mi vedi, quando sei incentrata su di te, non lo fai perché non mi vuoi bene, lo fai perché pensi di darmi un buon esempio prendendoti cura di te. Ed è vero mamma, in parte è così. Quando papà mi dice che sono come te, io non la prendo male, perché per me è un complimento.
Non sono più una bambina, ma mi domando come possano due persone amarsi tanto e poi farsi così del male per tanto tempo? Perché non la smettete? Farete così anche con me se non farò quello che volete voi?
Cari mamma e papà, ho 20 anni. Vi ringrazio per essere stati la mia mamma e il mio papà. Per aver dato ciò che siete riusciti a dare, perchè sono fiera di me stessa e questo è anche merito vostro. Ora sono in terapia per comprendere quali colpe ho avuto nella vostra storia. Spesso mi sono sentita usata per ferire l’altro, mi sono sentita di peso nelle vostre nuove vite. Devo costruirmi un modello d’amore che sia solo mio. Ho tanto lavoro da fare, tante domande a cui dare risposta, ma non sono più arrabbiata con voi. So che mi amate a modo vostro e che ora l’indifferenza tra voi ha concesso la pace. Gioirò il giorno in cui vi riconoscerete  nuovamente e saprete vedere la luce che c’è in ognuno di voi, la stessa luce che incontrandosi mi ha permesso di venire al mondo. Vi amo nonostante tutto e vi sono grata. 

N.B. Questo articolo si riferisce a casi di separazione che escludono violenze domestiche, psicologiche e fisiche. Esclude situazioni limite, siano esse dettate da forte conflittualità o da dipendenze di vario genere, dove la sola legge può intervenire per la salvaguardia della prole e degli stessi genitori.

Caro Papà

La paternità non la si acquisisce di default generando un’altra vita. Si diventa padri nel momento in cui si sceglie di esserlo, di impegnarsi con il proprio figlio per essere per lui  tutto ciò che racchiude, secondo il nostro sentire, la parola “papà”. Gli standard con cui si stabilisce chi è un bravo papà, generalmente sono: protezione, sensibilità, accudimento. Un padre è colui che ci accompagna nel mondo. Ma non tutti i padri sono così. Non tutti riescono a donare protezione, non tutti hanno la sensibilità libera dal pregiudizio (ricordiamo che la pubblicità simbolo degli anni 90 era “l’uomo che non deve chiedere mai”) , non tutti si sentono in grado di accudire in toto un altro essere umano. Sono per questo, per forza, cattivi padri? 

Un padre è tante cose. Prima di tutto è stato un bambino, un adolescente e infine un adulto. Alle volte è incastrato nelle prime due,  alle volte le ha superate talmente tanto da dimenticarsene.

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Nel tempo ho potuto raccogliere testimonianze diverse sulla figura paterna. Alcune possono generare rabbia, fastidio, o perfino sentimenti di ingiustizia. Vi invito però a leggerle invece con la mente aperta e il cuore spalancato, per le grandi lotte e le importanti conquiste che questi figli e questi padri  hanno compiuto, perché non sempre la strada è in discesa, spesso le consapevolezze del ruolo si apprendono strada facendo e certo, è più faticoso per i figli, ma questo non significa che non possa essere anche un esempio di crescita personale importante.


“Mio padre mi prendeva a cinghiate. Ho preso calci e pugni. Ma mi faceva da mangiare, si preoccupava che avessi il cibo pronto quando tornavo da scuola. Ad un certo punto mi sono allontanata da lui. Non volevo più vederlo. Lui ha continuato a cercarmi, a tenersi informato. Dopo anni abbiamo riallacciato i rapporti. Non mi ha mai chiesto scusa, ma ho compreso che per la sua storia personale non poteva fare altrimenti. Ho compreso che lui per me c’è sempre stato, nonostante tutto. Alla fine, il senso di cura, l’ho comunque ricevuto da lui.”


“Mio padre è morto quando ero molto piccola. Non si è voluto curare, mi dicevano. La logica mi portava a pensare che non valessi abbastanza per lui, se nemmeno per me si era curato. Aveva preferito morire. L’ho pensato per tanti anni. Ho covato rabbia e rancore. Poi un giorno, un suo amico, incontrandomi mi disse: “hai proprio gli occhi di tuo padre. Me lo ricordo bene. Anche quando stava male non voleva andare in ospedale perché, mi diceva, “non voglio che i miei figli mi vedano così”. ” Quelle parole mi hanno permesso di comprendere mio padre. Di pensare che l’atto che giudicai egoistico per molti anni, in realtà era il suo gesto d’amore più profondo.”


“Ho odiato mio padre per molti anni. Lui faceva del male a mia madre ed io lo sapevo. Mi sentivo tradita da mia madre perché non mi ascoltava e non lo cacciava di casa, ma la colpa era di mio padre che non solo non faceva il marito, ma nemmeno il padre. Mai un “brava”,  mai un “ti aiuto io se hai bisogno”. C’era per tutti, amici, estranei… per tutti tranne che per me e per la sua famiglia. Negli anni ho covato tanta rabbia. Crescendo però ho iniziato a chiedermi cosa ci fosse dietro ed ho capito che soffriamo della stessa “malattia”: non ci sentiamo amati e apprezzati. Mio padre cerca approvazione fuori casa perché pensa che noi lo consideriamo un buono a nulla. Ho compreso mio padre e ho liberato me stessa da questo sentimento di rancore continuo. Ora il nostro rapporto è abbastanza sereno. Ho un figlio, lui fa il nonno ed è un bravo nonno.”


“Mio padre non è mai stato presente. Era sempre via per lavoro. Ma ricordo che quando la mattina era a casa, mi faceva l’uovo al tegamino e le fettine sottili sottili di mela. Ho pochi ricordi della mia infanzia, a volte anche distorti. Credevo che mio padre non ci fosse alle mie gare di sci, invece ho scoperto che lui era presente. Io non me lo ricordo, ma lui c’era. Ha lasciato mia madre quando avevo 25 anni, per un’altra donna. Ho passato i restanti 26 a detestarlo, seppur non apertamente, per la ferita che aveva inflitto a mia madre. È mancato senza che ci chiarissimo. Ora ho capito che ho portato un peso non mio e ho perso l’occasione di costruire un rapporto con mio padre, ma sto faticosamente cercando di ricostruire una verità su ciò che è stato.”


“Mio padre è sempre stato il mio pilastro. Le decisioni in casa le prende lui. Che fosse per gestire le nostre uscite serali o per il colore della macchina nuova, o le vacanze estive. Mio padre sceglieva e sceglie per tutti. Non perché sia un padre padrone, ma perché lui è quello saggio, quello che sa qual è la decisione giusta per tutta la famiglia. Senza mio padre non so come farei”


“Il mio papà è un giocherellone. Ha giocato con me fin da bambina. Era il mio compagno di avventure. Con lui facevo cose pazze, giocavo al Nintendo e mi divertivo un sacco. Non è il mio “vero” papà, ma per me è come se lo fosse. Gli sarò sempre grata per avermi accolto nella sua vita e avermi reso sua figlia.”


“Mio papà è a volte burbero, a volte spiritoso. Devo osservarlo bene per capire in che giornata sia. Mi rimprovera spesso e sottolinea sempre le stesse cose. Certo, anche io non miglioro e gli somiglio anche, perché quando litigo con qualcuno ripeto le stesse cose più e più volte. Con mio papà parlo poco di come mi sento, lui non esprime molto le sue emozioni e anche io le tengo per me. Però parliamo di tanti argomenti, lui è uno con molta cultura e mi piace quando mi spiega le cose che non conosco. Mio papà poi mi porta a sciare e a fare sport. A lui piace e anche a me. Sono i momenti migliori. Gli voglio bene e so che anche lui me ne vuole molto.”


“A me piace molto il mio papà. Abbiamo il nostro saluto segreto, facciamo la lotta insieme e sa quali cibi mi piacciono di più. A volte litighiamo, ma lui poi mi chiede scusa, mi guarda con i suoi occhietti e, anche se sono arrabbiata, mi passa la rabbia perché mi fa tenerezza.”


“Non mi sono mai sentita amata da mio papà. Non mi sono mai sentita abbastanza per lui. Ero la ribelle, la rompiballe, quella difficile da gestire. Questo mi ha portato a non sentirmi mai abbastanza per nessun uomo e nemmeno per me stessa, perché mi giudico sulla base di quanto piaccio agli altri. Penso di essere sbagliata perché non trovo la persona per me.”


“Mio padre era un testa di ….. . Ma con il senno di poi ho capito molte cose. Ha vissuto la sua vita soffrendo moltissimo per questioni famigliari importanti. Io e mia madre eravamo spesso soli. Lui ha vissuto per il suo lavoro. Lo consideravo semplicemente così: uno che lavorava e che fondamentalmente pensava a se stesso. Ha iniziato a stare male ed essendo figlio unico toccava a me occuparmene. L’ho fatto con quel rispetto dovuto in quanto figura paterna. Io, uomo dai valori saldi, non avrei potuto abbandonare mio padre, proprio in quanto tale. Ho scoperto che era bello prendersene cura. Che poteva essere fragile anche lui e che non era l’uomo che pensavo che fosse. L’ho salutato con dolore e lo ricordo con profondo affetto e molta più comprensione per come mi ha cresciuto. Se sono quello che sono è anche grazie a lui.”

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Questi padri e questi figli hanno fatto o stanno ancora facendo, un percorso di crescita insieme, giorno dopo giorno, sbagliando e perdonando, gioendo e soffrendo. Dobbiamo essere grati alla vita per le trasformazioni che permette, per le consapevolezze che ci fa raggiungere attraverso le esperienze.
Grazie ai papà che accompagnano i loro figli con amore e dedizione. Grazie ai papà adottivi, quelli che scelgono di essere padri. Grazie ai papà che sono pronti dal primo giorno ad accogliere i loro cuccioli. Grazie a coloro che diventano padri strada facendo, mostrando ai figli che si può sbagliare, ma anche rimediare. Grazie ai padri che non sentendosi tali scelgono di non esserlo o di non esserlo più: anche questo è, alle volte, un atto di rispetto verso i figli, seppur dolorosissimo. Grazie a quei padri che camminano con i loro figli mettendosi in discussione. A quelli che si commuovono guardando i propri bambini; a quelli che sono come nei film “orsi giganti che proteggono i loro cuccioli”, supereroi a viso scoperto.
A tutti voi, padri, grazie per il dono della vita.

“Caro papà,

sii il meglio che puoi, con i mezzi che hai. Se puoi, non ti arrendere con me, mi fido di te. Se puoi abbracciami la sera prima di andare a dormire, se non puoi mi basterà la tua buonanotte.

Caro papà, io ti aspetto sempre, ti accetto e ti perdono se serve. Sii indulgente con me. Fammi strada senza togliermi la luce e la fatica, seguirò i tuoi passi, ma voglio compiere i miei.

Caro papà, a volte ti farò vedere una nuova via, se puoi seguimi, scopriremo insieme nuovi orizzonti, se non puoi mi basterà un tuo sguardo di approvazione.

Caro papà, faremo grandi cose insieme, perchè saremo, da ora e per sempre, padre e figlia, padre e figlio. “


Buona festa!

IL DOLORE INVISIBILE DEL LUTTO PERINATALE

Esistono dolori così profondi che risultano invisibili. Delle lacerazioni così intime che se non accarezzate, cullate, ascoltate, possono portare ad una morte silenziosa. Il dolore consuma. Alle volte lascia uno straccio umido a terra e spera che qualcuno lo possa raccogliere. Le lacrime versate sono così tante che il corpo si asciuga. Il cuore spezzato in mille piccoli pezzi non sa se battere più forte per tentare di restare in vita o lentamente per conservare energia sufficiente per battere ancora a lungo. È un dolore sordo ma acuto, lancinante. Guaisce come un cane abbandonato, ma la voce resta muta all’interno di noi. Il lutto perinatale che tantissime donne hanno subito e subiscono è un qualcosa di illogico. Nella naturalità del ciclo vitale, la morte arriva dopo aver vissuto a lungo e i genitori muoiono prima dei figli. Qui il processo si inverte e ci si ritrova a dover affrontare l’innaturalità. La morte di un figlio è una sofferenza talmente lancinante che ti lascia solo.

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Nessuno può comprendere ciò che stai vivendo: le sensazioni di perdita, le emozioni di rabbia, di ingiustizia che stai attraversando. La convinzione profonda che nemmeno il papà del bambino stia vivendo la medesima sfida, ci porta ad auto-isolarci e ad isolare l’altro.
Non è semplice avvicinarsi a chi sta soffrendo così tanto. Le parole non sono mai abbastanza. Il contatto a volte viene rifiutato. La paura di mostrare tenerezza verso il dolore e che questa venga vista come pena, porta spesso all’allontanamento. Così la madre si isola, il padre viene escluso, gli amici si allontanano e la sensazione di vuoto si allarga. Il baratro diventa profondissimo e tu sprofondi dentro. Vorresti morire, spegnerti, lasciarti andare. Lotti con il tuo corpo che conserva l’istinto di sopravvivenza. Lotti con la convinzione che resterai per sempre infelice. Il corpo si irrigidisce, il dolore diventa anche fisico. Ti guardi allo specchio e non sai più chi sei. Vedi una persona che non sei tu, ma che sai ti accompagnerà da ora in poi. Non ricordi l’ultima volta che hai respirato, o forse sì, è l’ultima volta che hai visto tuo figlio. Nell’ecografia o mentre dormiva nel suo lettino, all’interno di un’incubatrice o sul monitor dell’ospedale. Dopo non hai respirato più. Lui non c’è più e una parte di te si è seppellita insieme a lui.

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Lo hai sognato, immaginato, amato, sentito, visto, portato, nutrito. E poi non c’era più. Anche il tuo compagno lo ha sognato, immaginato, amato, sentito e visto. Lo ha portato con te prendendosi cura di voi, lo ha nutrito nutrendo te. Anche lui ha perso tanto. Anche lui vive l’ingiustizia. Si era visto padre, sognato situazioni, vissuto emozioni. Lo ha immaginato al mare, la sua prima volta sulla sabbia e l’acqua fredda; quando gli avrebbe insegnato ad andare in bicicletta o lo avrebbe guardato dormire beato pensando che fosse la cosa più bella che avesse mai visto. Avete perso insieme la partita più grande della vostra vita, state vicini. Non vi perdete anche voi. E non illudetevi. Non ascoltate i consigli maldestri di chi per consolarvi vi dice di farne un altro che poi passa. Non passa. Non passa mai. E se non elaborate questo dolore, se non lo rendete più dolce, più sopportabile, vi lascerà a terra o peggio ancora, lo trasporterete in modi diversi sul figlio o la figlia che arriveranno dopo la sua morte.
Abbiate cura di voi e sappiate che non siete soli.

CiaoLapo Onlus è un organizzazione che si occupa di lutto perinatale e di accompagnamento e sostegno psicologico a chi affronta la dolorosa esperienza della morte del proprio bambino in gravidanza e nei primi mesi di vita. Sicuramente ci saranno altre organizzazioni di sostegno al lutto perinatale, io conosco loro, per questo mi sento di pubblicarne il nome.

Potrebbero esistere anche gruppi di autosostegno gestiti ed organizzati da chi ha subito questa perdita. Fate una ricerca nella vostra zona. Ci sono molte più persone di quante crediamo all’interno di questo burrone.

Per concludere vi lascio una riflessione personale che per me è stata di grande aiuto, ciò che mi ha permesso di andare avanti: partorire o far continuare a vivere la mia bambina, anche se in un modo diverso. Questo mi ha salvata. Nel mio caso mia figlia è nata con un progetto di un centro polifunzionale per il bambino e la famiglia chiamato Il Mondo di Anya 💚.
Ci sono milioni di modi per far nascere e vivere un bambino. Scegliete la vostra strada. In qualche modo così ristabilirete i posti a tavola al pranzo di Natale in famiglia.
Un abbraccio a tutti voi!
Manuela

Le Donne sono Inferiori, gli Uomini non possono piangere: l’Identità Rubata.

Le differenze di genere fanno parte, culturalmente, di ognuno di noi, ma non solo… biologicamente siamo sicuramente diversi, ma come diverso è qualunque altro individuo rispetto a noi. Sono state instaurate però convenzioni sociali che limitano l’individualità, ci inscatolano in recinti prestabiliti da altri e se si tenta di uscire, si viene tacciati di essere “strani”. Tutto ciò che non è riconosciuto nei parametri stabiliti da chissà chi nel corso della storia viene bandito, additato come “non normale”. Un libro che ho apprezzato moltissimo sull’argomento è “Viola e il Blu” di Matteo Bussola e vi invito a leggerlo con i vostri bambini e nelle scuole, perché dà spazio a domande e riflessioni profonde su ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere. Viola è una bambina a cui piace il Blu, ma già alla sua giovane età, si accorge di come questo sia un problema, o meglio, la punta di un iceberg di “problemi” sull’identità di genere in cui ci vogliono inscatolare. Siccome sei femmina ti deve piacere il rosa, non puoi fare determinati sport, mentre se sei maschio non puoi piangere, non puoi lavorare meno di tua moglie e stare di più con i tuoi figli e figlie , e via via con “piccole” e grandi questioni, a cui il suo papà tenta di dare una risposta o di porre l’attenzione su come queste privazioni e predefinizioni di ciò che dovremmo essere ci fanno sentire. Un libro dalle parole semplici, ma profondissime, un testo da portare nelle case e nelle scuole, affinché si possa sdoganare la vera libertà di essere, indipendentemente dal genere a cui si appartiene.

Riprendendo il concetto iniziale, è certamente vero che a livello biologico siamo diversi e tutti i maschi hanno determinate caratteristiche fisiche e tutte le femmine ne hanno altre. Ci sono studi che riportano come anche i due cervelli siano formati in modo differente. Ma se prendiamo due donne o due uomini o due bambini o due bambine, troveremo comunque delle diversità, pur appartenendo allo stesso genere. Dove sta dunque la difficoltà nel comprendere, consapevolizzare e di conseguenza attuare e passare messaggi di libertà di individualità indipendentemente dal genere di appartenenza? La questione parrebbe semplice, gli studi ci sono, gli psicologi mostrano i loro pareri contrari a queste forme di restrizioni e recriminazioni, ma ancora una grossa fetta di popolazione continua a muoversi in questa direzione convinta che sia quella giusta. Ma osserviamoli i bambini e le bambine.Non facciamoci trascinare da bende invisibili che ci coprono gli occhi e trattengono le emozioni. Mostriamo loro che un uomo può piangere e che in questo modo evidenzia la sua umanità, non la fragilità, che se sta con i suoi figli e figlie non fa il “mammo” e non “aiuta la mamma” perchè quelli sono anche figlie e figli suoi e c’è un termine ben preciso che lo definisce: Papà.

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Ci sono memorie cellulari antichissime che il cervello rettiliano conserva e che supportano le azioni per la sopravvivenza, ma il cervello si è evoluto e ci sono altre parti che lo completano e lo rendono in grado di discernere ciò che sente e portarlo alla luce. Non saremo mai veramente liberi finchè non ci affrancheremo da queste convenzioni sociali che ingabbiano l’individuo e lo incasellano secondo un regime preciso. Le donne sono spesso viste come incapaci o elementi meno produttivi rispetto agli uomini. Le menti ottuse e barbariche continuano a perpetuare questo pensiero anche nei bambini. Ma se li osservate i bambini e le bambine , non ragionano per categorie. Un loro compagno si fa male o ha un momento di scoramento, loro non guardano se è maschio o femmina, si avvicinano, chiedono cosa è successo, si preoccupano sinceramente della persona che è in difficoltà in quel momento. L’Umanità. Tutta. Quella intera. Questo è l’insieme. Esiste un termine che ci comprende tutti ed è questo,UMANITA’, senza distinzioni di sesso, età, razza. Tanti sono i dogmi da abbattere e combattere, tante le limitazioni subite da entrambi i generi senza un reale motivo. Una presa di posizione surreale, ma talmente radicata da continuare a mietere vittime. Quante persone vivono il dramma del sentirsi sbagliate, che non vengono accettate per ciò che desiderano essere e questo “solo” perché non rientrano nelle categorie prestabilite. Genitori che rifiutano i figli e le figlie perché difformi da ciò che la società gli ha fatto credere essere la normalità. Figli e figlie affamati di accettazione, bramosi d’affetto, che ricevono abbandono e insulti per aver tentato di essere se stessi. Si pensa che i genitori amino sempre i propri figli, un’altra regola non scritta della società, considerata come “normalità”.

Che cos’è la normalità? Da cosa è data?

“E’ definita normale una condizione che si ripete in modo regolare e consueto, non eccezionale o casuale o patologico, con riferimento sia al modo di vivere, di agire, o allo stato di salute fisica o psichica di un individuo, sia a manifestazioni del mondo fisico, sia a situazioni (politiche, sociali ecc) più generali.” Treccani.

Dunque se tutti uscissimo per strada nudi per più giorni questa sarebbe considerata normalità e il non poterlo fare è dato solo dal fatto che nessuno lo ha mai sperimentato prima, per più giorni e in più persone. Ma pensate a cosa sarebbe il mondo oggi se nessuno fosse mai uscito dal recinto della “normalità”… Ci saremmo evoluti? Saremmo andati sulla Luna? Ci sarebbero state ribellioni e rivoluzioni, nuove invenzioni? Pensiamo alle donne che non potevano nemmeno pensare di laurearsi, o agli uomini che non potevano decidere di dedicarsi ai propri figli. Suonano come note stonate di un pianoforte non accordato, ma non parliamo poi di molto tempo fa e in certe parti del mondo ancora le cose stanno così, per citare forse piccole ingiustizie se si pensa ad altre atrocità inferte soltanto per il genere a cui si appartiene.

L’essere umano è Uno. Ci sono poi distinzioni di genere, razza, età, colori, ma è SEMPRE definito ESSERE UMANO.

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Riflettendo sugli spunti del libro con le mie bambine, ci si domandava proprio perchè, in lingua italiana, il plurale di un gruppo misto sia sempre definito al maschile. Un’altra convenzione stabilita da chissà quali intenzioni e finita per essere la “normalità”. Ma è davvero così “normale”? E soprattutto, è equo?

Ciò che spero sempre di passare ai bambini è l’idea che esistono pensieri propri che vanno tutelati. Osservare la realtà con pensiero critico e divergente permette di sviluppare innovazione. Non è detto che siccome “si è sempre fatto così” sia la cosa “giusta”. Se in un gruppo di 20 persone parla solo e sempre uno, le decisioni sono in mano a lui ecc, il gruppo non avanzerà più di tanto, perchè le idee rimarranno le stesse e non permettono di evolvere. La forza di un gruppo è invece la moltitudine di pensieri ed esperienze che ogni componente può portare per aiutare e sostenere la crescita del gruppo stesso.

Siamo ciò che siamo, donne o uomini, ma abbiamo il grande immenso compito di riconoscerci in un unico genere, l’Umanità, e trasmetterlo ai nostri bambini. RIBELLIONE significa Ritornare al Bello. Concediamo ai nostri bambini la speranza di un mondo migliore. Siate fautori di questa grande RI-BELLIONE!

Manuela Griso

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