L’ ABITUDINE AL LAMENTO ; riconoscerla per superarla (o evitarla).

Sono oramai noti gli studi scientifici che dimostrano come le lamentele possano incidere in modo negativo sull’attività neuronale. La lamentela viene processata dalla stessa parte del cervello deputata al problem solving : chi espone la lamentela (inclusi noi stessi )emette onde magnetiche sui neuroni dell’ippocampo rendendo inattivo il processo creativo di risoluzione dei problemi.

La lamentela come abitudine protratta nel tempo riduce, dunque, la capacità creativa di trovare soluzioni alle situazioni più disparate della nostra vita.

Il nostro cervello si nutre, come ogni parte del nostro corpo ; nutrendolo con lamenti (propri o di altri) perderemo gradualmente quella capacità di pensiero che porta ad avere la fiducia necessaria a riconoscere che è sempre possibile una soluzione. Non lo chiamerei “ottimismo” e nemmeno “pensiero positivo”, preferisco definirlo “pensiero cosciente”.

Se abbiamo vicino una persona con questa abitudine , spesso in sua presenza potremmo sentirci spossati, privati di energia e spenti. Per quanto bene vogliamo a questa persona tenderemo ad evitarla, ogni nostra parola di conforto sembra non avere presa e ci sentiremo probabilmente anche sfiduciati nei suoi confronti, confermando l’idea che ha già da se, cioè “non c’è rimendio”. Queste persone tendono a non voler ricercare soluzioni ,ponendo ogni proposta di fronte ad una serie di insormontabili difficoltà. Lo fanno, ovviamente, in modo inconsapevole e portate , appunto, da un abitudine. In alcuni casi la miglior soluzione è il distacco, creare la giusta distanza entro la quale non ci sentiamo depradati o inquinati da questa modalità.

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Se siamo noi a passare la maggior parte del nostro tempo a lamentarci la prima cosa da fare è accorgersi, prendere consapevolezza di questa abitudine portando attenzione ai nostri racconti, a cosa condividiamo con i nostri cari e amici, e sopra ogni cosa, portando attenzione alla qualità dei nostri pensieri.

Di grande aiuto possono essere anche le sensazioni fisiche : se dopo una condivisione ci sentiamo come svuotati, scarichi e stanchi, come aver vuotato il secchio dell’immondizia ; se abbiamo l’idea che ciò che stiamo vivendo rimarrà così per sempre, se vorremmo che ciò che ci circonda fosse diverso da ciò che è , se ci sentiamo vittime (di qualcuno o della vita, passata o presente)…

La chiave del cambiamento è la Presenza attiva e partecipativa alla nostra vita, inclusi i nostri pensieri, senza questa presenza attiva sarà probabilmente molto difficile anche solo, appunto, accorgersi e dunque attivare tutto ciò che è necessario per cambiare.

Si può invertire l’abitudine al lamento? Certo che si, come per qualunque ‘cattiva’ abitudine servono costanza, tempo ed esercizio.

L’inversione di marcia del lamento è la GRATITUDINE. Un pensiero volto alla gratitudine trova la fiducia nella vita necessaria a radicare in sè la convinzione che c’è una soluzione per tutto.

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Ecco alcuni esercizi utili :

  • Ogni sera , prima di andare a dormire, scrivere almeno 3 cose per cui si è grati della giornata appena trascorsa ; anni fa, quando ero nel pieno della mia ristrutturazione del pensiero, scrissi i 100 giorni di gratitudine, fu un esercizio fondamentale per correggere anni di abitudine al lamento.

  • Condividere con gli amici o i familiari ciò che di positivo ti ha portato la giornata o un’esperienza . Siamo abituati a trasmettere ciò che non ha funzionato, un po’ perche siamo convinti possa scatenare una maggior empatia, un po’ perche a volte non abbiamo altri argomenti . Prova ad ascoltare una normalissima conversazione al supermercato, o in fila alla posta o in qualunque contesto sociale: spesso il focus è su ciò che vorremmo diverso, sui problemi, sulle mancanze. Paradossalmente c’è più compagnia nell’infelicità, condividere l’infelicità ,per qualunque ragione, ti fa sentire parte di un gruppo. Quando inverti la rotta ti accorgi che puoi parlare di molto altro, dei sogni, delle aspirazioni, di ciò per cui sei grato, del bello che ti circonda o del bello che riconosci nell’altro, anche se si tratta di sconosciuti!

  • Esercitarsi a vedere il bello in ogni cosa. Persino nel momento più buio possiamo apprendere qualcosa di nuovo, o vedere una nuova prospettiva, nulla nella vita accade per caso, la vita accade per essa stessa , senza alcuna connotazione positiva o negativa, siamo noi ad attribuire un significato alle esperienze , siamo noi, dunque a poter scegliere su cosa soffermarci, cosa trattenere e cosa lasciar andare.

Accogliere la vita per come è non è accettazione cieca e passiva, è anzi, il primo passo per il cambiamento. Non è sbagliato voler migliorare la propria vita, ciò che ci avvelena è la pretesa di volerlo fare dalla negazione di ciò che c’è in questo momento.

Il pensiero è energia in una direzione, le parole creano il mondo.


ESSERE DISPONIBILE : co-creare una coppia felice

L’ uomo o la donna perfetti o “ideali” non esistono.

Le coppie perfette o “ideali”, illuminate newage, che non discutono mai e non hanno mai divergenze di opinione non esistono, se non dopo una lunga sequela dei suddetti, la saggezza, la volontà imperterrita e la capacità del tempo di smussare le spine e godere delle rose. Quell’ illuminazione lì è il dono di mostri e battaglie che sono diventati alleati e risorse, frutto di grande lavoro e sicuramente molto amore.

L’ ideale serve, semmai, fuori dal mondo delle favole e nella realtà tangibile, come “linea guida” per calare lo spirito nella materia.

Appurato che il principe e la principessa azzurri non esistono, e che amare vuol dire accogliere ciò che è , questo non significa restare immobili nascondendosi nel “sono fatto/a cosi”. Altrimenti non ci sarebbe incontro alcuno.

La nostra Personalità è in continuo movimento e se posso rendere migliore la vita mia e del partner perche non farlo? In un ottica di comunione la felicità di uno è la felicità dell’ altro e in un “palleggio” di gioie reciproche si vince la partita.

Esprimere ciò che ti piacerebbe vivere o ricevere non significa ” ti voglio diverso”, significa anzi rendersi nudi di fronte all’ altro/a e agevolarlo/a nella relazione.

Risparmio di energia notevole, come avere in mano una ricetta, gli ingredienti sul tavolo e dover solo cucinare la torta.

Ovvio che, prima, bisognerebbe aver chiaro cosa vuoi, la direzione verso cui ti piacerebbe “andare” e saperlo comunicare. Non semplice ma possibile.

Quando la richiesta non nuoce nessuno, rendersi disponibili alla risposta è come scoprire un altro mondo, sconosciuto perche è dell’ altro e arricchirsi di nuova esperienza.

Non rendersi disponibili significa non voler entrare in quel mondo. Quindi non essere parte del mondo dell’ altro.

Esempio che vivo nel quotidiano:

se io faccio addormentare un bambino con una canzone perche a me piace cantare ma quel bambino mi dice o mi fa capire che per lui è più facile se gli faccio una carezza in silenzio ,non posso dirgli : ” eh ma io sono fatta così, canto canzoni”, pensando di farla franca…neanche fossi Tosca otterrei un buon risultato perche quello è un bambino da carezze e non da canzoni.

Lui è deluso ed io devo fare il doppio della fatica offrendogli qualcosa che non gli serve e che mette anche lui nella difficoltà di “farsela andar bene”.

Insomma nessuno è contento , entrambi viviamo la frustrazione, eppure la soluzione era pronta.

Quello che posso chiedermi come adulto ed anche nella relazione tra adulti è

” sono disponibile alla sua richiesta?”

– Si, la relazione si fortifica, l’ altro si sente capito, si instaura fiducia reciproca, tutto si alleggerisce e diventa una bella esperienza per entrambi essere insieme.

– No, allora o mi adatto alla fatica vivendo spesso quella relazione con tensione, o faccio in modo che a rispondere a quella richiesta sia qualcun altro più disponibile . E questa sarebbe una scelta più amorevole e onesta per entrambi, piuttosto che dirgli “sono fatta/o cosi”.

La verità è che “non sono disponibile”.

La DISPONIBILITA’ all’ altro è la chiave delle relazioni ; capire se si è disponibile ad altro oltre al conosciuto ed in quale misura è una grande presa di coscienza.

L’ essere in comUnione è poter accedere al mondo dell’ altro, e viceversa , è scambio, equilibrio dare-ricevere.

Quando uno solo dà e uno solo riceve la relazione non è paritaria, è una relazione a cascata che si muove in una sola direzione. Se parliamo di relazione di coppia lo squilibrio della comunione logora entrambi.

E siccome non siamo alberi da frutto che sfoggiano una sola qualità di fiore, ma universi poliedrici che possono decidere cosa essere, la frase ” non puoi chiedere banane ad un melo”, oppure “chi nasce tondo non muore quadrato” vale fino ad un certo punto. Vale solo, cioè, se tu hai proprio deciso di essere un melo e di morire come sei nato.

Tutto il resto è pura CREAZIONE o CoCREAZIONE.

Il grado di disponibilità racconta il grado di complicità nella “squadra”.

Una buona complicità è fatta di movimenti reciproci verso un risultato comune.

La gioia di entrambi è la vittoria e “squadra che vince non si cambia”.

Maria Rosa Iacco, mery.iacco@gmail.com

Consulente per la promozione e lo sviluppo della consapevolezza, educazione all’ espressione del potenziale unico e inimitabile per una vita piena e realizzata.

L’ AMORE NON E’ MERITOCRATICO

“Se fossi un pò più….”

“Se fossi un pò meno….”

“Mi amerebbe di più se…”

Quante volte il nostro dialogo interiore si è soffermato su questa modalità?

Quante parti di noi abbiamo soffocato o storpiato con l’intento di essere amate ?

Quante volte abbiamo recitato una parte, imitato altri considerandoli migliori?

Migliorarsi è un intento buono di per sé, quando significa aumentare il nostro stato di Ben-Essere, ed è vero che spesso grazie alla relazione con gli altri riusciamo a vedere parti di noi altrimenti irraggiungibili.

Questo però non significa snaturarsi o peggio, sacrificarsi, come strategia per ricevere amore.

L’amore non è mai questione di merito.

Nè tanto meno di strategia.

Sei amata, sei amato così come sei.

L’essere più o meno funzionali all’interno di una relazione non ha a che vedere col merito. L’amore esiste a prescindere. Ciò che dimentichiamo è l’importanza di sentire amore dentro di sé, per se stessi e poi anche per l’altro, esplorarsi e cambiare o curare ciò che ci allontana dall’amore perché sentiamo che è qualcosa che fa bene a noi per primi e questo porta ,si, benefici nella relazione.

Il confronto con gli altri poi, dinamica che viene comoda all’industria della performance, è lontanissimo dalla ricerca del benessere.

Semmai possiamo fare confronti con noi stessi, nel tempo che abbiamo vissuto, per vedere dove siamo, per orientarci.

Ma ciò che conta davvero è Sentirsi, Sentire.

Se qualcuno ti mette a confronto o paragone con altri, con storie passate, o con un ideale che ha in mente, se qualcuno indica te come bussola per il suo benessere o malessere (e tu gli credi) o se sei tu che lo fai con l’altro…stai andando fuori strada. Ti stai perdendo.

Tu sei l’artefice, tu sei creatrice, creatore.

Non puoi modellarti come creta su ciò che è desiderabile per qualcun altro senza ,ad un certo punto, romperti in mille pezzi. Non puoi modellare l’ altro come lo vorresti senza ad un certo punto vedere cadere l’ intero castello di carta al primo soffio di vento.

Puoi ,invece, s-coprirti, puoi svestirti dai panni accumulati negli anni, dai ruoli interpretati, puoi scrostare lo sporco delle ferite e aprire finestre dove vi sono muri protettivi.

La paura tiene sotto coperta l’amore.

La paura di non essere abbastanza.

La paura di non essere adeguati.

La paura di essere abbandonati e lasciati soli.

E per quante anime meravigliose si possano incontrare sulla nostra strada, nessuna ci salva da queste crepe interiori se non siamo noi per primi a lanciare la corda e iniziare ad arrampicarci verso l’uscita.

Chi dovrà andarsene se ne andrà comunque, perché cerca altro, perché egli stesso è perso nel suo dolore e nella sua confusione, o perché è esaurito il tempo condiviso insieme, la funzione di quella relazione si è conclusa.

Chi vorrà restare resterà comunque , che tu abbia la pancia , la cellulite, le rughe , un carattere difficile o i debiti da pagare.

Non è il merito che determina la qualità dell’amore o delle relazioni. È il rapporto che hai con te stessa, con te stesso, con il tuo passato, con i tuoi antenati, con il dialogo interiore e con la direzione che vuoi dare alla tua vita che lascia o meno accesso all’ amore.

Scopri allora come ,prendendoci cura del dialogo interiore , prestando ascolto a quella voce silenziosa che spesso graffia e indica punti di erosione, possiamo influenzare anche il nostro modo di vedere le cose, di sentrCi e comportarci.

Maria Rosa Iacco

mery.iacco@gmail.com

M’ama,non m’ama: è questo il problema?

A tutti nella vita sarà capitato almeno una volta di pensare: perché non mi ama? (O non mi ha amato?) A questa domanda segue: cos’ho che non va? Cosa mi manca?
Il tempo, la rabbia ci portano a fare un prima passaggio: è lui/lei che non sa amare.
Conserviamo così quei pezzetti di autostima che ci sono rimasti, li mettiamo al sicuro e ,come lo specchio-riflesso che si faceva da bambini, giriamo sull’altro il problema. Perché si sa che da qualche parte il problema deve esserci. O sono io o è l’altro.
Passano i mesi e alle volte anche gli anni. Acquisiamo nuove consapevolezze e vediamo un passaggio delicato che prima non potevamo vedere: abbiamo/avevamo due concetti diversi di Amore.
Non sono io quello sbagliato e non lo è nemmeno l’altro. Siamo solo due persone diverse, con valori, bisogni e precetti d’amore che non corrispondono.


A questo punto entrano in campo altre domande. Mollare o tenere? Lasciare o lottare? Accettazione o compromesso? E cosa si cela dietro a tutto questo? Il sogno di una vita che vediamo sfumare, la paura della solitudine, la falsa certezza di non meritare amore, la scusa del “nessun rapporto è perfetto, cosa pretendo?”. Accontentarsi. Una parola dura, fredda, che finge accoglienza. Si dice spesso: devi accontentarti di ciò che hai altrimenti rischi di essere sempre infelice.
Meglio infelice vero che contento per finta.

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Senza cadere nell’utopia, l’Amore ha il meraviglioso compito di farci sentire a casa. Accolti, amati, alleati, protetti, compresi, sostenuti. Accontentarsi di qualcosa di meno è una forma di non rispetto per noi stessi, ma anche per l’altro. Cosa doniamo in cambio di un amore di cui dobbiamo accontentarci? Non permettiamo a noi e all’altro di essere amati davvero. E qui sì che si cela la vera infelicità. Vivere un amore tormentato toglie energie invece di donarne.
Perché sottostare a tutto questo? Per timore dell’altro forse, per le reazioni del mondo esterno alla coppia, per i figli, per i bei tempi passati insieme anche, per la paura di perdere il sogno.
Il sogno di una famiglia, inteso come coppia con figli, fa parte della cultura occidentale in modo profondamente radicato. Una donna che non fa figli viene vista spesso come una donna egoista, fredda, poco amorevole e che non fa la sua parte nel cerchio della vita. Un uomo senza una famiglia è quell’uomo che non è socialmente adeguato, non può mostrare il suo valore umano. La famiglia d’origine ci spinge al sogno di emulazione o distanziamento dall’idea di famiglia vissuta. Si ricerca l’idea di famiglia come nucleo saldo, porto sicuro in cui fare ritorno. Ebbene il sogno diventa obiettivo e scava dentro di noi il senso di inadeguatezza finché non lo raggiungiamo. Ma restare legati ad una persona per timore di non realizzare più quel sogno (peraltro indotto) ci fa perdere l’essenza di quel desiderio, la base su cui fondarlo: noi stessi. E, in fondo, che cos’è davvero una famiglia? E’ per forza una coppia con figli?

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Domandiamoci dunque se quel sogno è proprio nostro e se per realizzarlo vanno bene tutte le carte del mazzo o ci vuole quella speciale. Alle volte desideriamo qualcosa da così tanto tempo che non ci chiediamo più se la vogliamo ancora. Semplicemente siamo programmati per arrivare a quello e torturiamo noi stessi, accettiamo qualsiasi cosa pur di non abbandonarlo. Forse, il vero sogno, è al di là del muro, ma non lo vediamo.
Domandiamoci dunque se la sofferenza, l’agonia e la rabbia per essere stati lasciati non siano in realtà la nostra benedizione per poter vedere oltre. Domandiamoci se è l’amore che fa davvero soffrire o quello è il desiderio non corrisposto. Domandiamoci se i nostri bisogni possono essere messi in secondo piano. Riflettiamo sull’accantonare noi stessi per far spazio all’altro. Può essere che ci perdiamo per sempre. L’amore non è finzione. Prima o poi noi o l’altro ci smascheriamo e a quel punto cosa resta?
Siate fedeli a voi stessi. Siate onesti. Siate liberi. Amate e lasciatevi amare. Con amore.

” Tutto sua madre”. Lo stampo relazionale e la creazione di una nuova realtà individuale.

La prima relazione che viviamo è quella tra noi e nostra madre.
Nove mesi di scambio vitale e viscerale in cui acquisiamo informazioni genetiche e relazionali.
A volte sono dolori, sofferenze , sono i nodi genealogici, ma anche talenti, predisposizioni, ci viene ‘impresso’ un sistema che condizionerá il resto della nostra vita.
Uno ‘stampo’ relazionale che arriva dalla risposta della madre verso i bisogni del bambino (fame, sete, affetto, senso di protezione e senso del confine) , dalle influenze genetiche che diventano tendenze di indole e naturalmente dall’ imitazione.
Insomma nasciamo con un pacchetto base che prendiamo ma non è veramente nostro, e da questo sviluppiamo le relazioni a seguire, soprattutto quelle di coppia, dove il livello di intimità si approfondisce, le difese calano e le eventuali ferite vengono solleticate.

Dalla conoscenza di questa base possiamo costruire, ricostruire o trasformare , qualcuno dice ‘guarire il sistema’ (genealogico) che , con ogni nuova nascita, cerca di portare Armonia nell’ intera catena familiare.

La relazione con la mamma è lo “stampo base” di tutte le nostre relazioni, anche quella con noi stessi.
La base è sempre l’ Amore, nelle molte variabili in cui viene espresso, chi ti dono la vita compie un atto d’ amore e a volte è tutto quello che può fare, in alcuni casi non può andare oltre.
Alla base chi ti nutre per 9 mesi di sé stessa e ti dona quello che può , niente più di quello che ha , di quello che è, e rischiando la vita (tutt’ oggi il parto espone la donna al rischio della morte e a livello emotivo ad una morte simbolica di un ‘prima’), ti espone alla luce ….Ti Ama immensamente.

Il primo anno, (si ipotizza anzi fino ai 2 anni del bambino) la madre e il figlio hanno un rapporto unico, il figlio ha bisogno unicamente della madre per conoscere il mondo esterno e sè stesso, la figura del padre non è però affatto subordinata. Il sostegno alla Donna e la protezione in una fase così fragile della sua vita in cui si è dovuta moltiplicare e dividere e rinascere come madre arriva principalmente dall’ amore del suo partner, i baci, le carezze, le attenzioni che la madre riceve contribuiscono al benessere di tutti, soprattutto del piccolo; il padre quindi non costruisce ancora una relazione diretta ma la crea in modo indiretto prendendosi cura della madre.

Finita la fase simbiotica (che può durare appunto da qualche mese fino ai due anni) la madre accompagna (dovrebbe accompagnare) il figlio verso il padre e ne agevola la relazione.

Questo passaggio alcune donne lo dimenticano, per paura di perdere il figlio e l’ esclusività della relazione, il padre spesso si sente escluso e già un iniziale difficoltà può trasformarsi in un abisso. Tanto il sostegno del partner durante la fase simbiotica madre-bambino è di grande importanza per una sana vita familiare, quanto lo è l’ accompagnamento verso il padre , verso la relazione con il mondo; il papà porterà il bambino a conoscere il mondo fuori, fuori dal grembo materno (es. lavoro, denaro). Il modo in cui questo movimento avviene anche contribuisce a delineare il nostro ‘stampo base’ di relazione.

Con la pubertà e successivamente l’ adolescenza si ha bisogno di costruire un identità disgiunta dal ‘pacchetto base’ , che poi fa ritorno a ‘casa’ con l’ età adulta e, se non c’è una rielaborazione personale, una crescita individuale, replicando in modo pressocchè identico ciò che è stato ricevuto dai genitori.

Ci si stacca per poi tornare ad essere figli, bisogna stare attenti però verso chi. Un partner non può colmare i vuoti dell’infanzia o ‘aggiustare’ ciò che si era rotto, ma l’ amore di un partner può donare il coraggio necessario per potercela fare.

I figli non appartengono ai genitori ma al destino che si compie attraverso di loro per restituire speranza, la speranza dell’ interruzione, dello scioglimento, dell’ apertura , di un rinnovato fiume d’ amore che ricomincia a fluire.
I figli appartengono all’ “albero” che li ha generati e alla terra che ne fa frutto dolce (o eventualmente amaro).

Per essere grandi bisogna tornare piccoli.
Ma piccoli per i grandi giusti, i “nostri” grandi.

Il compito dei figli non è restituire ai genitori o guarirli o redimerli e nemmeno pretendere da loro le scuse per i loro errori ; il figlio restituisce alla Vita e quando restituisce alla vita diventa Madre o Padre, che sia attraverso un altro figlio o creando qualcosa, qualunque cosa che prima non c’era e che ora può contribuire al bene comune.
Donna è colei che in cuore conosce il suo essere Figlia , Amante e Madre.
Uomo è colui che in cuore conosce il suo essere Figlio, Amante e Padre.

Questo processo non una volta sola ma…ogni singolo giorno della vita.

Maria Rosa Iacco

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